Numero 6 - IL VIAGGIO INTELLETTUALE
Le radici dell'Europa e la città planetaria
Quadrimestrale, Spedizione in abbonamento postale

EDITORE: Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Questo giornale convoca intellettuali, scrittori, scienziati, psicanalisti, imprenditori sulle questioni nodali del nostro tempo e pubblica gli esiti dei dibattiti a cui sono intervenuti in Emilia Romagna e altrove, per dare un apporto alla civiltà e al suo testo.
ALESSANDRO ATTI
Cifrante, scrittore, presidente del Movimento Freudiano Internazionale

ORFEO E IL VIAGGIO DI DINO CAMPANA

Sessualità, come termine, non c’era in latino né in nessun’altra lingua prima di Freud. Eppure, nessuno lo nota, se non Armando Verdiglione. Impossibile notare qualcosa credendo di sapere già che cos’è. Prima di Freud, la sessualità non era nella lingua, ma, da qualche parte, c’era? Non c’era il termine, ma la sessualità c’era?
Intanto, entrando nella lingua, con Freud, se n’era posta l’istanza e la questione. Freud, come ciascuno dei contemporanei, era ben lungi dalla formula con cui Verdiglione ne fornisce l’enigma: la sessualità è la politica del tempo. Fatto il conio, Freud non poteva se non corredare il termine con le migliori sue fantasie, cercando di accompagnare i primi passi della sua inaudita creatura. Spettava ora ai poeti introdurla nella lingua.
Ma anche i massimi non sapevano che cosa fosse, c’era solo la parola e ancora D’Annunzio, contemporaneo di Freud, non disponeva se non della sensualità. Sicché i poeti stessi, non accorgendosi di che cosa fosse cambiato, non fecero che sostituire, man mano, la sensualità con la sessualità. Vale a dire che sostituivano l’ambito del senso con quello del sesso, come se la cosa andasse da sé. La cosa non poté dunque andare senza l’equivoco e la menzogna, che fungevano pro tempore (eterno ormai) da sostituti del malinteso. Si trattava, infine, dell’introduzione del tempo, i poeti dovevano introdurre il tempo nella lingua? Si trattava d’introdurre nella lingua la politica del tempo, ben prima che Verdiglione la definisse tale. Sicché i primi non fecero altro se non dedicarsi al tempo. Come D’Annunzio, che convisse, pur solo per qualche decennio, con la sessualità appena introdotta, forse non accorgendosi nemmeno che ormai esisteva. Né dunque aveva di meglio Dino Campana. Non sapeva della sessualità – impossibile saperne –, ma, come altri poeti, sentiva che qualcosa era avvenuto, come se avvertisse l’introduzione di Freud. Paradossale quest’introduzione, di uno scienziato e non di un poeta. E non di un poeta italiano, ma di uno scienziato germanico. Forse fu questo – oltre certo la grande cultura di Vienna – che spinse Campana a firmarsi poeta germanico, nella prima edizione dei Canti orfici.
I futuristi italiani erano appena ebbri della fretta, quando Campana pubblicò l’indagine che rieditava l’esigenza di Orfeo, per cercare in Orfeo forse la sessualità. Potremmo definirlo alienato nell’indagine sull’Altro?
Fatto sta che, dall’introduzione del termine di Freud fino a oggi, è difficile dire se qualcosa sia cambiato. A parte il fatto che non c’è chi non parli della sessualità. Dall’epoca vittoriana di Freud, il puritanesimo si è aggiornato, di epoca in epoca: oggi fa mostra di sapere della sessualità con il parlarne e prescrivendo di praticarla, proprio come ieri faceva mostra di saperne non parlandone e proibendo di praticarla. Campana tenta la sua via con l’orfismo. Orfeo, da Marradi, porta un taccuino a Papini e Soffici, proponendo, “con voce esile e lamentevole”, che riconoscano Orfeo già dalle vesti, vesti leggere e pastorali nel gelo d’inverno. E sparisce nei vicoli della città. Perdono il taccuino. Ma escono lo stesso i Canti orfici. Orfeo ha terminato la discesa all’Averno, ma ora ha smarrito Euridice. La politica del tempo, introdotta nella lingua, ha comportato l’alienazione. “Is it worth living?”. Degna, per i moderni, la vita, se è dato di accorgersi che c’è la novità, che l’introduzione dell’alieno non è da altri mondi, ma che è avvenuta nella lingua oggi da quasi un secolo, se è dato accorgersi che non c’è l’immobile, ma il miracolo. Anche accorgendosi che, dove manchi il rigore di Verdiglione, l’effetto del gesto di Freud è stato d’introdurre la ricerca degli UFO come sostituti della sessualità. Ancora oggi, la sessualità non è colta se non nell’attesa e nel terrore dell’alieno.
Nel 1914, Campana pubblica i Canti orfici e, subito, l’Italia è trascinata nella guerra. Non proprio a torto, egli ne sarà tratto a delirare che la responsabilità della guerra fosse sua. La guerra scoppia per ristabilire l’altro domestico, per definirlo nella coppia amico-nemico. Poco prima della guerra, Campana avverte il mito dell’Altro nel mito di Orfeo, che risale dall’Ade, incerto se dovrà lasciarvi Euridice. Orfeo si volta, per tema di abbandonarla. E così abbandona. Uscito dall’Ade, si ritrova in Orfeo, depurato alfine di Euridice, ma le donne tracie avvertono che non ha potuto abbandonarla e lo fanno a pezzi. Campana, Orfeo e Euridice. Pubblica i Canti e lascia ormai Euridice all’inferno, strappatone dalla donna degna del nome. Sibilla, il viatico dall’Ade. Lui lascia l’inferno e, giacché i poeti non concedono corona, si appresta a trovare le donne. Ne risulterà in pezzi come Orfeo. Dirà poi che è lui il responsabile della guerra, a causa del suo amore per Sibilla. Pubblica i Canti, dispiega la cetra di Orfeo nell’invocazione a Euridice; se mai uscisse dall’Ade. Sibilla, sola, lo ascolta, si propone senza esitare. Ma lei non è Altro. Una donna non può tanto. Pur brava e dolce e colta oltre il dire. Da lei non avrà il futile e il frivolo, solo le due versioni disponibili del tempo, la religione della fretta di Marinetti e il rallentamento spasmodico della frase eternizzata di D’Annunzio. Con lei non raffrena il delirio. “Il vampiro, la sanguisuga violetta”. Con lei, vanifica in un incendio le due versioni della sensualità. E, fra le sbarre del carcere a Novara, Sibilla che va a trovarlo non scorge più Orfeo, ma, di dietro la doppia grata a maglia, la prigioniera Euridice degli inferi. Lei può uscire dall’Ade, lei può abbandonare Orfeo, ma scriverà che “la libertà è parsa la cosa più tremenda della terra”. Campana resterà nel manicomio di Castel Pulci, a inseguire ancora il mito di Orfeo. Dopo quattordici anni, gli dicono che è guarito, parlano di dismissioni e, all’improvviso, giunto quasi fuori dagli inferi, ripete Euridice e muore di setticemia.