Numero 4 - BRAINWORKING

Il cervello dell'impresa, della vendita, della comunicazione

Quadrimestrale, Spedizione in abbonamento postale

EDITORE: Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Questo giornale convoca intellettuali, scrittori, scienziati, psicanalisti, imprenditori sulle questioni nodali del nostro tempo e pubblica gli esiti dei dibattiti a cui sono intervenuti in Emilia Romagna e altrove, per dare un apporto alla civiltà e al suo testo.
FAUSTO BATTINI
Vice presidente Vicario della Banca Popolare dell'Emilia Romagna

IL CERVELLO DELLA FINANZA

intervista di Anna Spadafora

Spesso si pensa che la finanza sia senza cervello, oppure che il cervello sia il controllo, il dominio, la facoltà di padroneggiare uomini e capitali. Secondo Lei, esiste un cervello della finanza che non sia l’eminenza grigia, ma l’intendimento, il dispositivo di direzione?

La finanza vive in una quantità di manifestazioni, imprese e iniziative, quindi, nell’ambito della finanza, ci sono tanti cervelli, non uno solo: l’attività è condotta da enti come banche, società finanziarie, società d’intermediazione, che hanno dimensioni grandi o piccole, che sono internazionali, sovra-nazionali e alcune di scala mondiale, c’è una grande diversificazione. Quello che ha prodotto nel campo finanziario la globalizzazione in atto – contro la quale non vale la pena di prendersela, perché è un fenomeno che esiste, non un fenomeno su cui si possa discutere se sia opportuno o meno che esista – è l’apertura dei mercati. Dopo che sono tramontati gli accordi di Bretton Woods, dagli anni ‘70 in avanti, c’è sempre stata una progressiva apertura, una deregulation delle norme rigide che vincolavano i prestiti, gli investimenti e i trasferimenti di capitali. La globalizzazione ha agevolato l’espansione delle attività economiche produttive primarie, grandi opere sono state realizzate nel pianeta perché la finanza è diventata internazionale, la mobilità dei capitali ha agevolato sicuramente lo sviluppo complessivo. Le forti sacche di sottosviluppo ancora esistenti si concentrano soprattutto in quei paesi che, per ragioni politiche, fattori culturali e carenze di diverso tipo, sono rimasti estranei a questo movimento di finanza internazionale. Quelli che si sono aperti, sia alla finanza sia al commercio, sono progrediti più degli altri.
Però non si può dire che nella finanza così internazionalizzata tutto vada bene…
Nella finanza ci sono ancora, e proprio la globalizzazione le mette in luce, differenze pericolose, quanto a sistemi di trasparenza, di correttezza e di legalità. Ci sono paesi che, da questo punto di vista, hanno fatto dei grossi passi in avanti, per esempio l’Europa e gli USA, e altri che invece non sono ancora arrivati a disciplinare la finanza in modo chiaro e trasparente tale da dare tranquillità e sicurezza agli investitori. I capitali si muovono a due condizioni: che siano remunerati nel modo giusto e che siano sicuri. La finanza internazionale e i suoi vari protagonisti – banche, società finanziarie, ecc. – devono dare questa sicurezza di trasparenza e legalità del loro funzionamento, come base per la tranquillità dell’investitore. Un paese come la Russia, che ha avuto crisi non piccole in campo finanziario – che ora sta risolvendo –, ha fatto cadere la fiducia da parte degli investitori internazionali. Il Giappone ha avuto una crisi non piccola a causa della scarsa trasparenza del suo mondo finanziario e dei legami poco decifrabili tra le banche e l’economia reale; le banche sono piene di crediti inesigibili nei confronti del mondo produttivo e questo crea un’immagine di inaffidabilità di tutto il paese. Per non parlare dell’Argentina, che è arrivata al punto in cui si trova a causa degli errori e delle leggerezze che generazioni di governanti hanno commesso; non sono mali recenti, sono mali che risalgono a Peron.
La finanza è uno strumento che non ha il cervello inteso come il Grande Cervello, ma una pluralità di cervelli, una pluralità di direzioni che però non sono ancora arrivati a dare agli investitori e ai creditori internazionali quelle garanzie di sicurezza – ragionevole sicurezza, poiché la sicurezza non è mai assoluta – che il sistema finanziario dovrebbe dare.
Esempi recenti, come il caso Enron negli USA o altri casi in Germania, non devono meravigliare perché i dissesti, grandi e piccoli, nelle imprese ci sono sempre stati. Sarebbe sciocco attribuire questi dissesti agli effetti perversi della globalizzazione. La globalizzazione non c’entra, c’entrano gli errori di conduzione delle imprese, il declino di ciclo di certi comparti. La globalizzazione ha solo un effetto diffusore delle crisi: a differenza che in passato, gli investitori e i creditori dell’impresa andata in crisi sono in tutto il mondo. Però c’è anche un effetto positivo, poiché le situazioni d’insolvenza possono essere analizzate con una maggiore trasparenza e un grado maggiore di conoscibilità rispetto al passato, proprio per questa loro portata internazionale. Per questo vaglio critico e democratico a cui partecipa tutto il mondo, gli USA non possono permettersi di gestire la crisi come se fosse un affare di casa propria, e allora si evidenziano i difetti nel controllo delle attività e delle passività dei bilanci, del funzionamento delle società del gruppo, dei trasferimenti di fondi tra l’una e l’altra, ecc. Cose che attraverso sistemi di revisione seri si potrebbero prevenire.
Ma c’è un’altra riflessione da fare a proposito della finanza internazionale. Nel mondo c’è abbondanza di capitali che vanno alla ricerca di impieghi. I tassi di rendimento internazionali, con il rientro dei diversi fenomeni d’inflazione – che prima erano più diffusi, mentre ora si verificano solo in alcuni paesi in cui la spesa pubblica è fuori controllo –, si sono fortemente ridotti. Questa riduzione dei tassi di rendimento e, quindi, degli interessi pagati dai debitori, accanto all’abbondanza di capitali, ha determinato l’effetto di rendere “più facile” il credito, sospinto dagli intermediari protesi a collocare capitali. Le imprese sono attratte, dal basso costo del denaro, a indebitarsi, magari per investire in altre attività finanziarie, in acquisti di partecipazioni. E qui ho notato che c’è un allentamento delle antiche virtù di attenzione e di prudenza. Il credito facile non è mai servito a nessuno, né a chi lo eroga, né a chi lo riceve, e questo è un altro fenomeno, accanto alla trasparenza, che dev’essere curato: il rigore nell’accordare il credito. Gli investitori devono sempre capire bene quali sono le finalità, qual è il profitto che ricava la società in cui investono e questo vaglio attento, che poi nasce dal buon senso, risultante dall’esperienza, deve essere internazionalizzato. Questo è un altro aspetto della globalizzazione accompagnata dall’etica. La globalizzazione dell’etica è la globalizzazione delle regole, ma se andiamo a guardare i contenuti di queste regole troviamo il buon senso, la prudenza, il principio di moderazione, l’attenzione sia al credito “facile”, sia quello troppo remunerato, e quindi la diffidenza verso coloro che prendono soldi pagando interessi troppo alti rispetto al mercato, poiché in un debitore che accetta di pagare interessi troppo alti è insita una debolezza.
L’ampliamento della finanza, che è fatto certamente positivo, ha anche moltiplicato il numero degli intermediari, il numero delle banche, delle finanziarie, delle persone che se ne occupano. Quindi, è diventata più incerta la selezione qualitativa delle capacità e delle moralità di tutti questi soggetti che operano nella finanza.

Qual è la direzione verso cui va la finanza? C’è chi, dispositivo o individuo, può assumere la responsabilità, la capacità e l’intendimento della strategia perché la finanza si scriva nella riuscita e non come strumento per controllare, gestire, padroneggiare o contestare? In altre parole, esiste il capitano come cervello della finanza oggi e come dà un contributo alla civiltà, con quali strategie, secondo quale logica?

Più che di capitani, parlerei di manager, di grandi azionisti, che svolgono professionalmente l’attività di finanza: concedere prestiti, acquisire prestiti, finanziare aumenti di capitale, emissioni obbligazionarie, finalizzati a scopi leciti. Partecipare al progetto del ponte sullo Stretto di Messina, ad esempio, esigerà la presenza di capitali finanziari da tutto il mondo, che saranno pilotati e manovrati da società che raccoglieranno denaro tra il pubblico e/o denaro proprio e avranno la responsabilità di destinare queste somme a finalità appropriate e dimostrate, per ricavarne utili. Questa è la finanza e il finanziere non è un benefattore, né un filosofo, né un santo. Il finanziere deve impiegare capitali in modo lecito e trasparente per finalità concrete e ricavarne il profitto giusto. Poi ci sono i finanzieri che escono da questi binari, quelli che riciclano capitali d’incerta provenienza. Ma qui siamo nella patologia della finanza. In tutte le attività si possono trovare gli onesti e i disonesti, ma siccome la finanza ha la caratteristica di raccogliere denaro dal pubblico, dal grande pubblico, l’aspetto morale e la capacità professionale del finanziere sono molto più importanti che in altre attività perché sono caricate del “fattore fiduciario”, essenziale nella finanza. Indubbiamente, la finanza include di per sé un potere: a seconda che io voglia finanziare o no un’impresa, a seconda che, come azionista, voglia incrementare o no la mia partecipazione, condiziono fortemente la vita dell’impresa. Quindi, il finanziere ha un potere sulla vita dell’impresa. Ma la concorrenza lo riequilibra: un potere lo esercita anche il cliente del finanziere, il quale, invece di rivolgersi al finanziere A si rivolge al finanziere B. Sono poteri reciproci, è il gioco delle parti in questo palcoscenico che ora è diventato mondiale. Il fenomeno fisiologico della finanza è sicuramente un fenomeno positivo, se ha le caratteristiche della professionalità, dell’etica e della trasparenza da parte dei suoi protagonisti.
Lei ha pubblicato di recente un libro dal titolo Etica e finanza. Se l’etica è intesa come l’insieme dei doveri, la finanza non potrebbe sentirsi soffocata? In che modo l’etica di cui ha bisogno la finanza non è moralista?
Usiamo il termine globalizzazione, ma si potrebbe tranquillamente usare il termine, meno suggestivo, di internazionalizzazione dell’attività. Che cosa vuol dire che dev’essere impostata su criteri etici? Innanzitutto, occorrono regole di trasparenza e di legalità, di sicurezza per gli investitori, perché gli investitori devono essere rispettati. In secondo luogo, ci vuole un sistema di regole che possa portare quelle aree del mondo che sono in sottosviluppo a ridurre le distanze. Uno degli errori che commettono gli antiglobal è quello di non capire che è nell’interesse dei paesi sviluppati, delle economie forti, di avere delle controparti non disastrate, ma solvibili. Considerando che è interesse dei paesi sviluppati favorire lo sviluppo dei paesi sottosviluppati, perché saranno loro clienti, occorre vedere come instaurare condizioni equilibrate per l’interscambio. Io credo che gli accordi internazionali in sede di WTO siano i forum essenziali in cui confrontarsi: quello che si è tenuto l’ottobre scorso è stato molto positivo, perché tante cose sono state regolate a favore dei paesi sottosviluppati. Certo, le medicine sono diverse a seconda dei malati: ci posso essere interventi del Fondo Monetario Internazionale o della Banca Mondiale più intensi che in passato, ma questi paesi devono mettersi in regola, anche loro devono applicare delle regole di legalità e di trasparenza per fruire dell’aiuto internazionale. Devono esserci accordi commerciali tali da non creare situazioni di dumping o di punitive barriere doganali, come il caso famoso della carne argentina, che soffre delle barriere sia da parte degli USA sia da parte dell’Europa. Allora, ci si confronta in concreto su questi problemi, non come fanno gli antiglobal, che accusano le multinazionali solo perché s’insediano in certi paesi, o tacciano i paesi sviluppati della comoda e generica accusa di egoismo. Può anche darsi che sia vero, ma le vie sono diverse da quelle che loro percorrono, cioè la protesta astratta ed ideologica. Queste cose devono essere condotte attraverso confronti concreti, confronti degli interessi. Tornando al caso dell’Argentina, è chiaro che l’interesse a ripristinare l’Argentina come partner internazionale valido ed evitare che vada in fallimento è superiore agli interessi degli allevatori francesi, o texani, a bloccare la carne argentina. Allora, è questo che dev’essere discusso. La United Fruits fa certamente l’interesse dei bananieri, ma non deve sacrificare all’interesse dei bananieri i produttori di banane, e queste sono cose che vanno discusse in sede di confronto, perché il do ut des, il negoziato, c’è sempre e sempre ci sarà. Sono queste le cose pratiche in cui devono intervenire i cervelli dell’economia e della finanza, nel trovare punti d’incontro. È chiaro che ci sono interessi nazionali da proteggere. Ma, ogni volta, occorre capire se è più importante proteggere gli interessi nazionali o perseguire un’integrazione maggiore. La stessa concretezza è da portare nella disputa sui prodotti transgenici: non c’è nessun elemento probatorio dei pericoli della mutazione, che nei secoli è sempre avvenuta: non crediamo che le mele che mangiamo oggi siano le stesse che mangiavano nel trecento! Questi temi vanno affrontati, ma non in modo pregiudiziale e distruttivo, bensì cercando delle regole. Le regole vanno negoziate a tutto campo, da quelle finanziarie a quelle commerciali, a quelle cui devono sottostare anche il FMI e la Banca Mondiale, alle regole cui debbono sottostare i singoli paesi.
E poi c’è un altro problema, molto forte, se guardiamo alle cause vere del sottosviluppo, senza fare della demagogia: le cause vere sono nei governi corrotti, incapaci e rissosi che ci sono nel mondo, soprattutto in Africa. L’eredità di un passato in cui l’Africa era divisa tra aree di influenza americane e sovietiche è stata quella di regimi autonomi ma del tutto inadeguati ed incivili. Da questi regimi i popoli devono apprendere come liberarsi. Non possiamo ammettere che il FMI eroghi fondi per ingrassare un dittatore del Medio Oriente o dell’Africa. Sono questi i problemi della finanza internazionale e l’unico forum per risolvere qualcosa è il WTO. Sono anche dell’idea che la globalizzazione delle regole potrebbe avviarsi in modo non totalizzante, ma per gruppi di paesi: l’Unione Europea, il Gruppo Latino-americano, l’Unione americana del Libero Scambio. Ci sono gruppi omogenei di paesi che possono mettersi attorno a un tavolo e stabilire regole di libero scambio tra loro, ed anche regole di libero scambio con i paesi sottosviluppati e regole per dare loro degli aiuti.