Numero 1 - L'Economia Nuova

La trasformazione nel lavoro, nella vendita, nell'impresa

Quadrimestrale, Spedizione in abbonamento postale

EDITORE: Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Questo giornale convoca intellettuali, scrittori, scienziati, psicanalisti, imprenditori sulle questioni nodali del nostro tempo e pubblica gli esiti dei dibattiti a cui sono intervenuti in Emilia Romagna e altrove, per dare un apporto alla civiltà e al suo testo.
ANTONIO D’ATRI
docente della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Ferrara

L’ALTRO È UN COOPERATORE NON UN NEMICO

Nella fase politico-istituzionale che il nostro paese vive attualmente, il tema dell’imprenditorialità è ricorrente e il libro di Emilio Fontela merita un approfondimento che lo allontani da qualsiasi tentativo di relegarlo in un melenso “politically correct”.
L’approfondimento dovrebbe, a mio avviso, riguardare tre aspetti: il contenuto concreto dell’imprenditorialità, gli aspetti politici e, infine, la questione della moneta unica europea e della globalizzazione. Questi tre aspetti si collegano l’uno con l’altro, pur essendo ben distinti e, almeno per il nostro paese, non sono per nulla indolori, nel senso che richiedono un cambio di mentalità piuttosto profondo da parte di noi tutti.
Cominciamo dall’aspetto di natura economico-aziendale riguardante l’imprenditorialità. Il libro di Fontela sembra suggerire, a mio avviso non a torto, che la “new economy” (termine del tutto inappropriato) non elimina l’esigenza fondamentale del “fare” impresa e cioè possedere una visione di fondo, un progetto, in stretta correlazione con una forte propensione al rischio. Se a questo aggiungiamo che la concorrenza non è solo un fatto economico ma, per dirla con Hayek, un “procedimento di scoperta” e una forma di collaborazione, non c’è dubbio che il nostro paese è ancora dominato da una cultura contraria al rischio e da una visione della concorrenza esclusivamente negativa, da lotta fratricida dove non esistono spazi di interscambio e collaborazione bensì soltanto immoralità e assenza di scrupoli.
Per prima cosa, dunque, per favorire l’imprenditorialità, il nostro paese dovrebbe uscire dalla morsa della cultura dominante, cattolica e marxista, per affermare che riconoscere al mercato una funzione di selezione non vuol dire sposare il materialismo bieco, detestare la solidarietà e la sussidiarietà. Anzi, fior di economisti liberali (da Smith a Einaudi, passando per Hayek) ci hanno insegnato esattamente il contrario.
Da ciò che scrive Fontela, si evince anzi quanto sia importante considerare l’impresa un’istituzione, al centro degli interessi di un’intera comunità, il cui obiettivo centrale non può che essere la sopravvivenza. Nell’impresa, dunque, si riflette una cultura (quella degli uomini che ne fanno parte) ed è impossibile giungere alla definizione di un modello valido per tutte le imprese: occorre solo ricordare che un mercato funzionante ha bisogno di istituzioni, di norme di comportamento, il cui orizzonte oltrepassa – deve oltrepassare – i singoli interessi individuali.
Gli aspetti politici vengono di conseguenza. La vulgata cattolica, marxista e del liberalismo “costruttivista” credo ci abbia abituato a porci la domanda seguente: “chi deve comandare?”. Ebbene, la domanda che dobbiamo porci oggi, e alla quale comunque arriviamo con molto ritardo, dovrebbe invece essere la seguente: “come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che governanti incompetenti facciano troppo danno?”. Mi piace ricordare, a questo proposito, quanto suggerito da Mandeville e da Hayek. Scriveva Mandeville: “Infelice è il popolo, e sempre precaria la sua Costituzione, il cui benessere deve dipendere dalle virtù e dalle coscienze di ministri e politici”. E, ancora, Hayek: “Il nostro principale interesse non riguarda ciò che l’uomo può occasionalmente fare quando è al meglio, ma consiste nel ridurre al minimo le opportunità di fare danno quando egli è al peggio”.
Il bene comune è un sistema di regole che, nel lungo periodo, incrementa per quanto possibile le opportunità di ognuno. La Grande Società è chiusa solo agli intolleranti ma è aperta al confronto tra valori diversi e tra diverse visioni filosofiche e religiose del mondo, alla competizione tra differenti proposte per la soluzione dei problemi. Nella Grande Società l’Altro è un cooperatore o un concorrente, non un nemico.
Emilio Fontela sembra avere una certa preoccupazione a proposito della finanza globale e delle sue possibili conseguenze. Ha ragione. Secondo me, viviamo in un periodo alquanto strano, dove se uno stato decide di controllare l’inflazione, di tendere al pareggio di bilancio, di controllare il debito pubblico e gli interessi, di diminuire le imposte e di ridurre la spesa corrente a favore di quella per investimenti (che sono, poi, “valori morali” per l’economia) si ritiene ciò svantaggioso a livello sociale. Ma vagheggiare un rapporto tra investimenti e sviluppo dell’occupazione, che prescinda dalle quote di mercato recuperate grazie alla competitività e sia invece basato sulla creazione e finanziamento di fabbriche al solo fine di creare posti di lavoro, ancorché finti e improduttivi, anche a costo di accumulare passivi enormi (si veda il caso delle Partecipazioni Statali) a spese della collettività, è un atteggiamento sociale? È questo che si intende per moralità? V’invito a leggere, o a rileggere, la Filosofia della Pratica di Benedetto Croce per convincervi proprio del contrario.
La stessa leggerezza mi sembra abbia caratterizzato il sorgere della moneta unica europea. Dietro l’attuale crisi dell’Euro, c’è chiaramente la debolezza politica della costruzione europea e il trionfo dei banchieri, secondo i quali una “moneta senza stato” sancisce il primato dell’economia sulla politica.
Ma, legata al problema dell’Euro, l’euforia italiana si tinge di provincialismo. Come dimenticare che negli Stati Uniti d’America c’è un’unica Banca Centrale ma anche un unico Governo Federale mentre in Europa il Governo è ben lungi dal funzionare? È proprio per questo, del resto, che l’Euro, molto basso rispetto al dollaro, è stato sostenuto (inutilmente, come era ovvio) mediante interventi della Banca Centrale Europea, dimenticando (credo in mala fede) che le preferenze per il dollaro da parte degli operatori derivano dall’assenza, in Italia e in parte in Europa, di riforme strutturali riguardanti lo stato sociale, la spesa pubblica, la pressione fiscale.
Speriamo che l’Europa non voglia seguire l’esempio italiano, dove vige il primato della società politica sulla società civile, dove la vita dei cittadini è dominata dagli apparati politico-amministrativi. Ne farebbero le spese i cittadini, la libertà individuale, la competizione, lo sviluppo della società.
Concludo con un richiamo al mondo dell’istruzione. Emilio Fontela sottolinea, più volte, quanto esso sia importante per il futuro della nostra società. Ricordo solo che la riforma in atto del sistema complessivo di istruzione italiano si appresta a formare un buon numero di cittadini privi di una cultura della responsabilità individuale. Quanto questo sia coerente con l’imprenditorialità e la “new economy” non è dato sapere.