Numero 1 - L'Economia Nuova

La trasformazione nel lavoro, nella vendita, nell'impresa

Quadrimestrale, Spedizione in abbonamento postale

EDITORE: Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Questo giornale convoca intellettuali, scrittori, scienziati, psicanalisti, imprenditori sulle questioni nodali del nostro tempo e pubblica gli esiti dei dibattiti a cui sono intervenuti in Emilia Romagna e altrove, per dare un apporto alla civiltà e al suo testo.
GIANLUCA GHERIGLIO
consulente aziendale, imprenditore

TRASFORMARE IL CAMBIAMENTO IN OPPORTUNITÀ

Il libro di Emilio Fontela, Come divenire imprenditore nel ventunesimo secolo, affronta, in termini molto rigorosi e chiari, il tema dell’imprenditore che deve vivere in un momento di profondo cambiamento, senza propendere verso facili ottimismi o pessimismi.
L’autore, infatti, analizza molti aspetti di questa nuova economia in maniera obiettiva e dalla lettura del suo libro scaturiscono diverse riflessioni. È anzitutto interessante vedere come i cicli economici, che si sono susseguiti nel tempo, abbiano una progressione sempre più geometrica. Il ciclo economico dell’agricoltura è dell’altro millennio; quello dell’industria ha interessato vari secoli; quello dei servizi è durato circa quarant’anni; oggi viviamo nella società dell’informazione. E domani? Quanto durerà questa società dell’informazione e quale sarà il prossimo ciclo? Non lo sappiamo ancora, però vediamo che il lasso di tempo si riduce sempre più e i cicli sono sempre più rapidi. La ragione di tutto ciò sta nello sviluppo molto accelerato della tecnologia, quindi, della scienza applicata.
A questo proposito risulta evidente che la scienza in sé non è né buona né cattiva. Vi è piuttosto il pericolo che questa accelerazione porti l’uomo ad uno sviluppo troppo rapido. La tecnologia procede infatti più velocemente della nostra capacità di acquisirla. Come si può leggere nel libro di Fontela, già quattro generazioni di computer si sono susseguite, ciascuna volta decuplicando la velocità di calcolo; ormai le informazioni girano su reti e fibre ottiche, si utilizzano i satelliti, quindi, lo scambio di informazioni è a bassissimo costo e molto rapido. Siamo in una società che si può definire d’interconnessione completa. Le barriere spazio-temporali sono molto inferiori: oggi, trovarsi in Italia, negli Stati Uniti o in Giappone è poco rilevante, perché abbiamo grandi possibilità di scambiarci dati e informazioni e di essere on line con tutto il mondo. L’unico aspetto decisivo a questo proposito è se viviamo in un paese con buoni o cattivi servizi e infrastrutture. Se i paesi si doteranno di servizi ed infrastrutture più efficienti, avremo un’accelerazione ancor più rapida.
Il fattore della velocità comporta implicazioni enormi in diversi ambiti: quello del lavoro, quello dell’istruzione e quello del tempo libero. A proposito di tempo libero, Fontela ci espone delle statistiche europee che mostrano un generale calo del tempo dedicato al lavoro. Si parla di una media di due ore al giorno di lavoro. È chiaro che questo dato, che apparentemente sembra paradossale, viene da una media. Credo infatti che i “lavoratori della conoscenza” o quelli maggiormente impegnati nel far nascere nuove attività non lavorino, sfortunatamente, soltanto due ore al giorno.
La tecnologia di questa era ha anche minato una delle altre preoccupazioni che avevano gli studiosi del ciclo industriale: l’aumento della produzione può essere infinito? Esiste un problema di scarsità di risorse, per cui giungeremo a un punto in cui più di tanto non si potrà crescere? Probabilmente, le tecnologie ci aiuteranno anche a superare la scarsità delle risorse, permettendoci di sfruttare energie che oggi non riusciamo neanche a definire.
La domanda ricorrente allora è: questo sviluppo saprà creare anche benessere? Fontela dà una definizione di benessere che io condivido. A cosa deve portare lo sviluppo economico? Essenzialmente ad una produzione di maggiore ricchezza, ad una sua migliore distribuzione e ad un aumento dell’occupazione. Questi sono i punti fondamentali che danno la misura del benessere in un sistema economico. Gli oppositori dell’economia dell’era dell’interconnessione evidenziano il problema che si sta cercando di produrre di più con meno persone e che questo può creare più disoccupazione. Temono anche che questo crei un grande senso di inadeguatezza fra le persone che a quaranta, cinquant’anni debbono fronteggiare i processi di cambiamento all’interno delle imprese. Credo che queste preoccupazioni siano fondate ma non possiamo assolutamente rifiutare quello che la tecnologia oggi ci offre. Se possiamo esprimerci con un’immagine, utilizziamo l’ideogramma giapponese del cambiamento: letto capovolto significa opportunità. La sfida dei giorni nostri è quella di trasformare questo cambiamento, che è anche doloroso e faticoso, in un’opportunità. Tutto questo richiede grande applicazione da parte di imprenditori, manager e istituzioni pubbliche, ma ci si deve provare. Prima di tutto occorre accettare l’idea di vivere in una situazione d’instabilità e di caos. Questa sensazione dà sempre un po’ di fastidio. Nelle imprese oggi viviamo costantemente di fronte ad antinomie e contrasti. Non ci sono più le certezze di un tempo. Quando, per esempio, all’interno delle aziende si parla di centralizzazione o di decentramento, può essere giusta l’una o l’altra impostazione. In alcuni casi è bene centralizzare, in altri lo è decentrare determinate attività produttive. Da questo dipende la necessità di creare aziende flessibili, rapide, che sappiano adattarsi molto bene ai mutamenti, anche se l’adattabilità non sempre porta efficienza.
L’esperienza di questi giorni ci descrive piccole e medie imprese bolognesi, molto dinamiche, con a capo imprenditori cosiddetti “visionari”, che sanno guardare avanti. Queste imprese cercano di aprirsi a nuovi mercati acquistando, ad esempio, altre aziende. Ma come si muovono per fare queste acquisizioni? I “sacri testi” ci hanno sempre detto che, per acquistare un’azienda, bisogna considerare il patrimonio e l’utile che questa ha prodotto negli ultimi anni. Questi parametri rischiano, in questo quadro di sviluppo, di essere obsoleti e inutili. Gli imprenditori “visionari”, che magari quei libri non li hanno letti, non chiedono questo. Vogliono che il loro consulente dica quanto reddito produrranno tali aziende, non quanto ne hanno prodotto. Sono interessati a quanto capitale intellettuale c’è all’interno di queste aziende; sono interessati a dati dinamici, di accelerazione e non al patrimonio o all’utile che sono dati statici. Questo è quindi un modo di ragionare completamente diverso, attento ad acquisire gli strumenti per poter entrare in nuovi mercati e fare business per la propria impresa.
Un altro tema di attualità è il binomio competizione-cooperazione. Un tempo era un’antinomia inaccettabile, oggi invece ha molto senso. Nei distretti industriali, come nella rete, nascono imprese importanti, le aziende cooperano, competono e, al tempo stesso, si scambiano dati, informazioni, personale tecnico. La manodopera qualificata cresce anche in questo modo di relazionare. Molte volte da un’impresa ne nasce un’altra. Per mantenere infatti la flessibilità, che una grande azienda fatica ad avere, è necessario far nascere una nuova impresa, magari accordandosi con un concorrente.
Questo modo di ragionare è la chiave di volta per capire che cosa sta avvenendo e che cosa avverrà. Creare una nuova cultura d’impresa sarà la parola d’ordine dei prossimi anni. A un recente convegno, l’ex presidente delle Ferrovie dello Stato Necci spiegava che oggi la tecnologia è alla portata di molti e anche le materie prime sono a buon mercato (adesso ci si lamenta dei 30, 35 dollari al barile di petrolio, ma all’epoca della crisi energetica il barile ne costava 50). Il problema di fondo sarà avere competenza e cultura adeguate nelle persone che operano all’interno delle aziende. Chi è impegnato in progetti ambiziosi, sta cercando, con difficoltà, “lavoratori della conoscenza”, cioè persone in grado di mandare avanti i processi che vengono avviati.
In questo contesto una parola merita il settore della logistica, che è uno dei punti chiave del nuovo sviluppo. Infatti, oggi, nonostante la facilità con cui si fanno transazioni da un capo all’altro del mondo, sorge la difficoltà, completato l’ordine o chiusa la commessa, di spostare materialmente le merci. Questo è il nodo fondamentale della catena: se Internet rende facile agli imprenditori aprirsi verso grandi mercati e vendere i propri prodotti senza limitazioni e barriere, meno facile è consegnare questi prodotti con la stessa rapidità. Ad esempio, collegandosi a un’importante società che venda libri on line, un libro può essere ordinato in pochi minuti, ma poi viene recapitato dopo due o tre settimane. Purtroppo, in molti casi, dopo due settimane, arriva la risposta, sempre on line, che il libro non è più in catalogo.
Questo è un altro aspetto che deve farci riflettere: oggi le possibilità d’interconnessione stanno mettendo in crisi la capacità organizzativa delle imprese e l’efficienza della logistica che collega il cliente al fornitore si dimostra ancora molto insoddisfacente. I portali che dovrebbero vendere prodotti e servizi stanno creando attese molto alte, ma dietro alle loro vetrine non c’è un’organizzazione sufficiente a garantire ciò che si promette. Teniamo conto che il nostro tessuto industriale è costituito da piccole imprese, dove spesso non c’è un substrato di conoscenze adeguate.
Sono invece d’accordo solo parzialmente sulla necessità d’istruire i giovani a diventare imprenditori. È vero che dobbiamo preparare i giovani a non abituarsi al posto fisso e ad accettare la precarietà di un lavoro a contratto. Abituare i giovani ad accettare un eventuale incarico poco remunerativo, che però consente di acquisire conoscenze, non vuole affermare che avranno un facile futuro imprenditoriale. Sarebbe pericoloso creare aspettative irrealizzabili: per essere imprenditori, infatti, occorre avere caratteristiche molto particolari. Chi vuole fare impresa deve sapere che per qualche anno la vita può essere grama e ci vogliono capitali. Il nostro tessuto industriale è composto al 75% da aziende con meno di 10 dipendenti e che oggi incontrano grosse difficoltà.
L’impresa padronale fatica a dotarsi di un management all’altezza. All’imprenditore “visionario” con grandi intuizioni occorrono anche capitali, investimenti e l’aiuto di buoni managers. Servirà molta formazione per creare una nuova classe manageriale in grado di aiutare le piccole e medie imprese nella loro crescita. Infine sarà rilevante il ruolo della pubblica amministrazione.
Le imprese temono il rapporto con la pubblica amministrazione. Temono i suoi moduli da compilare, i tempi lunghi, la lentezza burocratica. È compito della pubblica amministrazione lavorare per superare questo giudizio attraverso una profonda opera di semplificazione. Se questa opera avrà successo, permetterà di far riemergere molte aziende che, nella grande vetrina aperta sul mondo dell’economia globale, non potranno più permettersi di vivere nascoste.
E ciò è fondamentale, se vogliamo che l’impresa italiana abbia un ruolo rilevante nel ventunesimo secolo.