Numero 10

L'ALTRO nella medicina, nel diritto, nell'economia
Quadrimestrale, Spedizione in abbonamento postale

EDITORE: Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Questo giornale convoca intellettuali, scrittori, scienziati, psicanalisti, imprenditori sulle questioni nodali del nostro tempo e pubblica gli esiti dei dibattiti a cui sono intervenuti in Emilia Romagna e altrove, per dare un apporto alla civiltà e al suo testo.
LEONARDO GIACOBAZZI
Accademia Italiana dell'Aceto Balsamico Tradizionale di Modena

UN VIAGGIO NEL MONDO MERAVIGLIOSO DEL BALSAMICO

Intervista di Anna Spadafora

Quali sono le principali differenze tra l’Aceto Balsamico di Modena e quello Tradizionale?

Sono due prodotti essenzialmente diversi, sia per usi che per metodi produttivi, ma entrambe figli della stessa secolare tradizione di fare aceto con il mosto, tipica degli antichi territori Estensi.

Le differenze fondamentali sono nella materia prima e nel metodo di invecchiamento: da una parte solo mosto cotto acetificato, maturato e invecchiato in lunghe serie di piccole botticelle (Tradizionale), dall’altra mosto d’uva, mosto concentrato e mosto cotto acetificati con aceto di vino e maturati e invecchiati in grandi botti di legno (Aceto Balsamico di Modena). Occorre precisare che già dal punto di vista legislativo gli aceti balsamici tradizionali sono considerati dalla legge italiana (DL 5 Aprile 1983; L. 93 del 3 Apr. 1996 e successivo Decreto del 1987) come condimenti, e sono due: uno è l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP e l’altro è l’Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia DOP. Si tratta in realtà dello stesso prodotto: Modena e Reggio erano infatti le due città dell’antico Ducato Estense. Oggi, sono invece Province diverse e, per motivi sia campanilistici che amministrativi, hanno dato vita a due consorzi distinti. L’Aceto Balsamico di Modena, invece, per la sua grande diffusione fu riconosciuto come “aceto speciale” e regolamentato già nel lontano 1933, quando un apposito Decreto Legge fu promulgato affinché “non sia arrecato nocumento alla secolare e caratteristica industria di Modena”. La Legge del 1965 con l’emanazione del DL n° 162 costituì una vera e propria indicazione di origine “ante Litteram” per questo prodotto tramandato dalla tradizione ma riservato all’uso quotidiano, mentre da sempre il “Tradizionale” propriamente detto, rinchiuso nel segreto delle acetaie, era il prodotto per pochi e per le grandi occasioni.

Sicuramente un grande cambiamento a livello sociale rispetto a questo prodotto si è verificato con la venuta di Napoleone. I suoi fiduciari, che valutavano le proprietà del Duca, misero all’asta l’acetaia con tutte le botti che, da quel momento, furono disperse fra le famiglie di Modena, ovviamente le più facoltose. Se fino ad allora l’aceto Tradizionale era stato appannaggio solo delle famiglie aristocratiche, da quel momento divenne l’aceto di quelli che potevano permetterselo. Nel Dopoguerra molte acetaie furono dismesse, e si rischiò di perdere questo prezioso prodotto che oggi è invece tornato di moda. Dal 1967, infatti, la Consorteria dell’ABTM ha incominciato a riunire tutti i piccoli produttori, a studiare le differenze tra i metodi produttivi, a selezionare i prodotti migliori. Fu istituito il Palio di San Giovanni a Spilamberto, e se il primo anno parteciparono solo una cinquantina di campioni di Balsamico, ai nostri giorni ogni anno partecipano migliaia di piccoli produttori. Pensiamo d’altra parte che a Modena e Reggio sono attive una cinquantina di Licenze Ministeriali per la produzione di Aceto Balsamico di Modena, mentre per il Tradizionale il 31 Luglio 2003 si erano autocensite ben cinquecento acetaie di rilievo, e migliaia sono le piccole acetaie familiari. In tutta la restante parte dell’Europa solo circa centocinquanta acetifici sono attivi. Per questo motivo, due anni fa, il Comitato “2002 Anno del Balsamico” ha dichiarato le Province di Modena e di Reggio “L’acetaia d’Italia”, proprio perché non esiste in tutto il mondo un’altra località dove ci sia a livello industriale e familiare una concentrazione di acetaie così grande.

Credo che ci sia anche una questione di non riproducibilità alla base della denominazione…

Questa è una problematica che esiste per tutti i prodotti tipici. Stabilire o dichiarare che un prodotto tipico non potrebbe essere fatto in un’altra località non tipica forse è eccessivo, perché oggi con la moderna tecnologia ci si potrebbe anche riuscire. Con il Tradizionale tanti hanno provato e provano, finora con risultati poco entusiasmanti. Infatti, il prodotto tipico non è soltanto il prodotto in sé e per sé, non è soltanto quella sensazione gustativa che può generare, ma anche tutto un insieme di storia, di cultura e di tradizioni che sono molto più importanti del prodotto in se stesso. È questo il campo di battaglia di Slow Food. Il cinese o l’argentino che abbia una batteria di botti può ottenere un prodotto “simile”, però dietro non c’è quell’immagine, quella storia, quell’amore “parentale” che da generazioni e generazioni nella propria famiglia ha creato questi prodotti: anche questo contribuisce a un risultato che altri non potrebbero ottenere.

Questa tradizione com’è nata?

Riguarda Nonantola e l’acetaia dei Salimbeni la più antica testimonianza della produzione dei diversi aceti “di Modena” (1839), costituita dagli “Appunti di viaggio” del Conte Giorgio Gallesio, grande pomologo, autore della poderosa opera di arboricoltura “La Pomona Italiana”. Gallesio testimonia, per la prima volta in modo dettagliato, che esistono diversi tipi di aceto “nel Modenese”, dice di essere rimasto estasiato dalla qualità “eccelsa” (che noi oggi chiamiamo Tradizionale) e ne descrive il metodo produttivo. Poi sottolinea che a Modena non è l’unico aceto, ce ne “sono di due tipi”, anzi tre: parla di un aceto ordinario, quello di vino che si trovava dappertutto, poi dell’aceto di Modena fatto solo col mosto cotto, infine quello fatto con il “mosto, partendo dal vino fatto” (quello che oggi chiamiamo aceto balsamico di Modena).

Al giorno d’oggi le ricette e gli usi dell’Aceto Balsamico di Modena tramandatici dal passato sono diffusissimi, mentre dell’Aceto Balsamico Tradizionale non esistono ricette antiche scritte, ma solo alcune testimonianze che spiegano come questo prodotto venisse utilizzato per migliorare col suo profumo e col suo sapore l’aceto di tutti i giorni. Possiamo comprendere questa particolarità pensando ad un prodotto che era a tutti gli effetti l’“orgoglio di Famiglia”, era “l’unico”, e di conseguenza non richiedeva di essere divulgato nell’uso. Il Tradizionale senza diluizioni veniva usato invece anche a fini terapeutici. Da ciò si pensa che possa derivare il termine balsamico. Francesco IV portava sempre la bottiglietta del suo migliore aceto perché aveva problemi polmonari. Infatti, era ed è un prodotto corroborante (energetico e integratore) e “balsamico”, nel senso che apre le vie respiratorie, per effetto della sua acidità delicata. Per non parlare del Casanova o di Elisabetta D’Este che lo utilizzavano come afrodisiaco, o di Lucrezia Borgia che, partorendo il figlio Ottone I, aveva richiesto del balsamico affinché le sue proprietà corroboranti e la sensazione di piacere potesse alleviare i dolori del parto. Durante le pestilenze, si dice che alcune gocce su una pietra calda poggiata sul focolare servisse a disinfettare l’aria.

Comunque, questa tradizione è nata dall’uso che i romani facevano dell’uva. I romani erano un popolo guerriero e come tale avevano bisogno di decisione, di disciplina, di forza. Un soldato doveva avere un’energia prontamente disponibile e, di conseguenza, nella sua alimentazione figurava il miele. Il miele però era un prodotto molto costoso e veniva dalla Grecia con enormi costi. I romani avevano così intuito che il succo di mosto d’uva, che è altamente fermentescibile, se viene cotto, sterilizzato e concentrato oltre un certo grado zuccherino, non fermenta più. Anche se non avevano le bottiglie di vetro, preziosissimo al tempo, come contenitori avevano gli otri e le anfore, ma erano estremamente porosi e non adatti per i vini o i mosti che potevano fermentare o facilmente ossidare. Così avevano inventato quella che oggi chiamiamo Saba, (si chiamava sapum), ottenuta cocendo e concentrando al fuoco il mosto d’uva. Non fermentava e poteva essere messa in qualsiasi contenitore e trasportata per migliaia di chilometri. Al loro arrivo, aggiungevano un po’ d’acqua o aceto di vino per l’uso come bevanda ristoratrice, oppure la facevano rifermentare per ottenere bevande alcoliche. Viene naturale pensare che una quantità di questa Sapum ottenuta da uve delle nostre terre, dimenticata lungo tempo nell’ambiente microclimatico che ci è tipico, sia poi stata ritrovata con le caratteristiche eccelse di un prodotto degno di essere “regalo per Principi”.

Risale al 1096 la testimonianza del monaco Donizone che descrive (“De Vita Mathildis”) l’episodio del grande compiacimento del re Enrico II di Franconia nel ricevere in dono dal suo Vassallo Marchese di Canossa di quell’aceto “che gli era stato tanto decantato”. Era il 1046 d.C. Da allora ad oggi la storia è lunga, ed avremo altre occasioni per approfondirla.