Numero 5 - LA CURA DELLA CITTA'
Quadrimestrale, Spedizione in abbonamento postale

EDITORE: Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Questo giornale convoca intellettuali, scrittori, scienziati, psicanalisti, imprenditori sulle questioni nodali del nostro tempo e pubblica gli esiti dei dibattiti a cui sono intervenuti in Emilia Romagna e altrove, per dare un apporto alla civiltà e al suo testo.
CARLO MONACO
assessore all'Urbanistica del Comune di Bologna, docente di Dottrina dello Stato

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La prima cosa che vorrei dire del libro di Gianni Verga, Come avere cura della città, è che questo libro è dichiaratamente e programmaticamente migliorista. Chi ha i capelli bianchi ricorda con quanto disprezzo veniva usata questa parola nella cultura italiana: io stesso ne sono stato vittima designata, perché per una decina d’anni sono stato accusato di essere migliorista. Qual era la colpa del migliorista? Quella di rinunciare a una trasformazione radicale del sistema, di accontentarsi di piccoli cambiamenti. Solo recentemente si è capito che le alternative al sistema approdano quasi sempre all’utopia, se non al terrorismo, e, quindi, oggi possiamo parlare del migliorismo come il punto fondamentale di riferimento della nostra azione. Lo sto verificando in questi miei tre anni di esperienza proprio nel modo d’intendere l’urbanistica: l’urbanistica vera è sempre una mediazione, un punto d’incontro tra due esigenze fondamentali di una società: una è la città in sé, l’altra i suoi soggetti, i cittadini, con le loro storie, speranze, interessi.
Per questo la cura della città, prima di tutto, è un dato che appartiene ai cittadini: la società è prima di tutto fatta dalla gente, non dagli amministratori. Se come amministratore posso documentare che l’amministrazione pubblica a Bologna, oggi, impegna risorse umane e soldi almeno doppi rispetto a quelli che s’impegnavano in passato nella pulizia della città e se vi è chi afferma che è più sporca di prima, si dovrà concludere che è modificata profondamente la mentalità dei cittadini. Per altro verso se a Bologna, per esempio, nel triennio 1999-2002 è stata concessionata e avviata la realizzazione di circa 1000 appartamenti l’anno, contro i 350 del triennio precedente, un piccolo merito dell’Amministrazione forse c’è, nell’aver favorito le pratiche, accelerato gl’iter. Ma vuol dire anche che il settore, gli imprenditori, gli investitori, i cittadini che desiderano farsi la casa sono impegnatissimi in questo campo. Solo se c’è questa vitalità dei cittadini si riesce in qualche misura a favorire la cura: il liberismo, insomma, sottintende il più ampio spazio che devono avere comunque all’interno del dinamismo sociale i gruppi organizzati e gli individui.
Pianificazione è una parola forte, che viene da una tradizione non certo di tipo anglosassone, dove tutt’al più si è parlato di programmazione. Pianificare è tipico dei regimi totalitari, implica un taglio negativo, perché dirigistico: solo in urbanistica sopravvivono esplicitamente e teoricamente i piani, ancora concepiti come direzione accentrata di tutto lo sviluppo del territorio. C’è qui un modello che è sicuramente negativo, però, nello stesso tempo, non si può neppure rinunciare per intero all’idea che lo sviluppo vada governato e guidato. Si tratta di dare senso a quella che possiamo ancora un po’ pigramente continuare a chiamare pianificazione, ma che in realtà significa l’insieme delle regole che dobbiamo darci per guidare un favorevole sviluppo. Questa moderazione, insomma, è nell’ordine delle cose, è nelle esigenze che dobbiamo sviluppare, come avviene nelle procedure cosiddette concertative. Gianni Verga è stato uno dei primi nella Regione Lombardia a introdurre qualche legge che sta sotto la grande categoria dell’urbanistica concertata, concordata, concorsuale, che tende a costituire questo terreno mediano tra il liberismo e la pianificazione, terreno nel quale i soggetti proponenti interessati e le istituzioni pubbliche trovano luoghi e forme libere per mettersi d’accordo, il tutto in assoluta trasparenza, con metodi che sono proprio quelli della discussione di quale tipo di mediazione, tra interesse privato e interesse pubblico, si debba realizzare. Questa idea di migliorismo, secondo me, oggi può utilmente essere assunta da tutti gli amministratori pubblici come un terreno effettivo post ideologico di liberismo.
Vorrei prendere in considerazione un secondo elemento, che forse deriva dalla mia formazione filosofica: nella lingua latina la parola città si dice in due modi: “urbs” e “civitas”. Urbs è lo spazio fisico, l’insieme degli uomini. Civitas è la relazione sociale, l’appartenenza, il legame. Evidentemente, l’idea che la città, prim’ancora di essere un luogo fisico, debba essere vista e interpretata come un sistema di relazioni sociali non è una stravaganza sociologica.
Io ho una cultura politica un po’ mediana tra queste letture dei fenomeni sociali che oscillano tra l’individualismo atomistico, da un lato, e il comunitarismo e l’organicismo, dall’altro. Se dicessi che la città è come un corpo vivente, è come una pianta in cui ognuno rappresenta qualcosa, mi farei trascinare troppo sul versante della rappresentazione organicistica. Cadere però nella posizione opposta secondo cui esistono solo gli individui, e tutto il resto è solo contratto, rispetto dei patti e regole, significherebbe vedere nella vita sociale un elemento afono, d’incomunicabilità, che non restituisce l’interezza della libertà. Nelle nostre azioni, nei nostri gesti, nelle nostre scelte, c’è sempre un tanto di speranza, di sogni, di fantasie, di paure, di desideri che appartengono anche alla sfera collettiva. La relazione sociale è fondamentale.
Senza cadere, quindi, nell’organicismo, per quanto riguarda l’urbanistica, non si può non vedere nell’idea di spazio pubblico la forma in cui si estrinseca l’idea di cittadinanza: lo spazio pubblico che dev’essere progettato, pensato all’interno di una città è la rappresentazione fisica e visibile di tutto ciò che l’individuo ha in comune con gli altri. Gli stessi luoghi fisici denotano in modo significativo quella che è la rappresentazione complessiva dei legami sociali: il luogo fisico può rimanere anche lo stesso, ma se sono modificati i luoghi sociali anch’esso diventa un’altra cosa. I viali di circonvallazione sono un luogo splendido di passeggiate nell’età napoleonica e post napoleonica, con carrozze e spazi dove si va a prendere il fresco; sono un luogo tremendo di passaggio di automobili nel nostro tempo e, ahimè, sono luoghi di prostituzione generalizzata nelle ore serali.
Sostenere dunque che sono sempre uno stesso spazio è un’idea puramente meccanica, in realtà le relazioni sociali strutturano gli spazi, cambiano gli usi. Noi dobbiamo mettere nel nostro lavoro anche le interpretazioni dei luoghi nuovi, non c’è solo la logica della conservazione. L’idea di cura forse può far pensare a un’idea eccessivamente conservativa. Nulla di tutto ciò. La vera cura significa anche costruire giorno per giorno il nuovo. Le esigenze che noi non riusciamo a capire e a interpretare, il tempo libero di un uomo, i parchi pubblici, i luoghi del divertimento, le discoteche, le multisale, i cinematografi, questo nuovo che viene avanti non può essere esorcizzato, bisogna cercare di capirlo per inventare: l’urbanistica è invenzione di spazi e di città, viene continuamente costruita, deve cercare di trovare le forme, ma tutto ciò sempre avendo questo sentimento che è la cura.
L’espressione cura implica una riflessione: viene da un senso materno che è più forte dei legami sociali e di appartenenza. Avere cura significa un legame inseparabile, un sentimento molto profondo, non occasionale, un sentimento che forse io non ho verso Bologna perché non ci sono nato, ci sono solo venuto per l’università. Quindi, pur essendo forte il legame con la città, che è cresciuto in questi anni, probabilmente non è così integrato come quello del mio amico Sindaco, che invece ci è nato, cresciuto e vissuto e può ricordare i momenti dell’infanzia con una passione e un sentimento più vivi del mio.