Numero 1 - L'Economia Nuova

La trasformazione nel lavoro, nella vendita, nell'impresa

Quadrimestrale, Spedizione in abbonamento postale

EDITORE: Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Questo giornale convoca intellettuali, scrittori, scienziati, psicanalisti, imprenditori sulle questioni nodali del nostro tempo e pubblica gli esiti dei dibattiti a cui sono intervenuti in Emilia Romagna e altrove, per dare un apporto alla civiltà e al suo testo.
ELSERINO PIOL
venture capitalist, presidente di Pino Venture Partners

LE IMPRESE DI VENTURE CAPITAL

intervista di Sergio Dalla Val e Pierluigi Degliesposti

Che cos’è il venture capital e qual è l’apporto che può dare all’impresa oggi?

Il venture capital è capitale di rischio, organizzato in fondi chiusi diretti all’investimento in nuove iniziative imprenditoriali; è focalizzato sull’investimento in aree ad alto tasso di crescita, come la tecnologia dell’informazione e la biotecnologia. La funzione del venture capital è quella di “creare valore”, ovvero realizzare un “capital gain” attraverso il disinvestimento dalle iniziative partecipate.
Non è inconsueto sentire parlare nel venture capital di ritorni dell’ordine del 30-40% all’anno, addirittura negli anni 1999-2000, per le migliori aziende di venture capital si parlava di ritorni del 150% annuo.
Il sistema del venture capital ha, da una parte, gli investitori che investono il proprio denaro nel fondo di venture capital, e dall’altra, i venture capitalist, ossia coloro che, come il sottoscritto, analizzano il mercato, guardano le aziende e investono il denaro del fondo in aziende. Aziende che, nella maggior parte dei casi, anzi sempre, non hanno una storia, non hanno numeri, ma vengono valutate sulla base di elementi immateriali, ovvero in termini di idee, di valutazione dei mercati, di valutazione del futuro e del management; aziende che non dicono “questo è il mio bilancio, questo è il mio business plan”. Quando un’azienda ha già un bilancio, significa che già esiste e, quindi, non è un’azienda d’interesse per il venture capital, almeno nel senso in cui lo intendiamo noi.
Il venture capital è evidentemente qualcosa di molto diverso dalla finanza tradizionale. Il venture capitalist non si limita infatti soltanto al finanziamento, ma affianca l’azienda in termini di consulenza manageriale. Ogni azienda nuova che nasce ha qualche difetto, qualche lacuna; il ruolo del venture capitalist è quello di completare questa azienda – e purtroppo non sempre vi riesce – supportandola a livello gestionale, individuando nuovi manager, aiutandola nella redazione del business plan, o semplicemente verificando costantemente, insieme al management, se l’idea iniziale di business sia quella vincente, oppure se non sia necessario modificare il business model in relazione ai mutamenti del mercato.
In America, l’80% degli investimenti di venture capital è focalizzato su aziende ad alto contenuto tecnologico: Internet, telecomunicazioni, information technology e biotecnologie. Altri settori in genere non ricevono finanziamenti dal venture capital e la ragione è molto semplice: oggi l’industria a più alto tasso di crescita, in cui vi è grande innovazione e conseguente più elevata probabilità di creazione del valore, è l’industria dell’information technology, o dell’informazione in genere, sia a livello di media, che di telecomunicazioni.

Allora, il venture capital sostiene la new economy?

Mi sono sempre rifiutato di parlare di new economy, di nuova economia, e ho parlato di net economy. Non esiste la nuova economia, perché parlare di nuova economia significherebbe che c’è qualcosa di diverso rispetto all’economia tradizionale. L’economia, e le leggi che la governano sono sempre quelle. Parliamo semmai di net economy, cioè di come certi fattori legati alla rete e alla comunicazione possano accelerare o amplificare o rendere diversi alcuni fattori economici. Ma anche la net economy in questi mesi è stata uccisa, da alcuni fatti importanti…

Lei ha investito nelle imprese di telefonia regionale, anche in Emilia Romagna. In tempi di globalizzazione delle imprese quanto conta l’economia regionale?

Le due cose non sono in contrasto, nel senso che le regole del gioco per un’impresa devono essere sempre tali da garantirne la sopravvivenza in un contesto globale. Allora, anche un’azienda focalizzata su un territorio regionale, come un’azienda regionale di telecomunicazioni, deve operare avendo presente le regole della competizione globale nel settore delle telecomunicazioni. Ad esempio, un’azienda regionale di telecomunicazioni a Trieste, che sta per entrare nel mercato regionale, seguirà le stesse regole di comunicazione che valgono per un “lancio” a livello mondiale; al tempo stesso, questo non impedirà poi a quest’azienda di espandersi rispetto al territorio regionale.
La focalizzazione ha alcuni vantaggi che non sono in contrasto con la globalizzazione. Questo si collega con la problematica dei distretti industriali, che saranno in realtà rafforzati dalla globalizzazione. Faccio un esempio. Il distretto industriale più importante del mondo è la Silicon Valley. Molti pensavano che con Internet non sarebbe più stato indispensabile rimanere nella Valle, ma in realtà Internet e telecomunicazioni non sono stati in grado di sostituire il patrimonio umano e culturale, i contatti che si trovano lì.

La stampa specializzata sta avanzando l’ipotesi che il marketplace sia uno strumento che darà un apporto notevole all’impresa della net economy. Secondo lei, sarà veramente un apporto alla civiltà oppure c’è qualche rischio?

Direi che ci potrebbero essere due risposte, contradditorie ma entrambe valide. Spesso ci arrivano proposte di investimento su marketplace e io tendo a rifiutarle. Non è affatto detto che il modello di marketplace sia vincente, anche se c’è gente che lavora nell’ufficio accanto al mio e la pensa in maniera diversa. Io sono convinto che ci sarà un calo d’interesse nei confronti del marketplace, per alcune ragioni: la prima è che è difficile da implementare, in termini di definizione di standard, codifiche, ecc.; la seconda è che molto spesso c’è il rischio di avere un operatore dominante (Pirelli, Fiat, ecc.) per cui altri operatori potrebbero decidere di non entrare a far parte del sistema.
Inoltre, vi è un problema per le attività promosse da grandi gruppi che decidono di operare congiuntamente, legato al fatto di essere messi in discussione dall’antitrust. Quindi, sono convinto che questo sia un processo molto complesso. Il modello che probabilmente si affermerà sarà un marketplace di attività limitate più che globali, focalizzate su singoli segmenti del settore di riferimento: per esempio, invece di creare un marketplace per tutto il settore dei ricambi automobilistici, verranno creati marketplace per i diversi segmenti di questo settore, affontando le problematiche specifiche di ogni segmento. In visione nazionale, invece, se si dimenticano i problemi legati agli aspetti emotivi e ai disturbi esterni, i marketplace dovrebbero essere i grandi vincitori dei prossimi anni.