Numero 8

Corpo e Scena
Quadrimestrale, Spedizione in abbonamento postale

EDITORE: Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Questo giornale convoca intellettuali, scrittori, scienziati, psicanalisti, imprenditori sulle questioni nodali del nostro tempo e pubblica gli esiti dei dibattiti a cui sono intervenuti in Emilia Romagna e altrove, per dare un apporto alla civiltà e al suo testo.
ANNA SPADAFORA
Psicanalista, direttore dell'Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

MEDICINA E BRAINWORKING

Medicina e humanitas. Aritmetica e cifratica della vita è il titolo del congresso internazionale che si terrà nei giorni 28, 29 e 30 novembre 2003 alla Villa San Carlo Borromeo di Senago (Milano), con l’intervento di medici, scienziati, psicanalisti, filosofi, poeti, scrittori e ricercatori di varie città del pianeta. 

Promuovere il dibattito intorno alla medicina risulta tanto più urgente quanto più, man mano che  essa sembra ottenere risultati straordinari, sempre più viene chiamata in causa la sua etica. Ci si chiede quanto il medico sia “umano”, oltre che competente e preparato. E, tuttavia, quale imprenditore, professionista, insegnante – che pure è presunto trovarsi in uno statuto di direzione nel proprio lavoro – non è pronto a delegare al medico qualsiasi questione inerente alla propria salute? Anche perché avverte che la cura non è soltanto la guarigione dalla malattia, dunque, cerca una salute che sia istanza di qualità della vita, più che benessere.

Ma, chi si affida al medico come se fosse depositario di un potere magico non fa che applicare il luogo comune più diffuso da Platone in poi, ossia la credenza che la verità di ciò che è presunto visibile (il corpo) stia nel mondo presunto invisibile delle idee (la scena). Il medico, cosciente dell’esistenza di tale doppia realtà, dovrebbe portare il paziente a riconoscerla – come indicherebbero i detti “ognuno è medico di se stesso”, o “non c’è medico migliore del paziente” –, in modo che, insieme, possano pervenire alla verità. La verità, quindi, sarebbe qualcosa da riconoscere, qualcosa che ognuno sa ma non sa di sapere, ha dimenticato di sapere. Ma, quale sarebbe in fondo la verità ultima dell’uomo, quella che il medico, alla fine, si chiede se dire o non dire al paziente? Se Platone aveva lasciato qualche dubbio, Aristotele ci è venuto incontro lapidario: l’essere dell’uomo è mortale. Il medico che applicasse, con il proprio paziente, il luogo comune del discorso occidentale non avrebbe altro compito che accompagnare ognuno nel modo migliore verso la morte. Oggi, sempre più spesso, si sente la formula che meglio giustifica l’eutanasia: “Se non posso aiutarlo a vivere, lo aiuto a morire”. Ma come può l’uomo, in quanto essere mortale, avere la libertà di vivere o di morire? L’uomo essere mortale è già votato all’eutanasia. L’unica libertà che resterebbe a tale uomo sarebbe quella di decidere quando e come morire, tutto il resto sarebbe prestabilito. E malato terminale non sarebbe soltanto chi è stato diagnosticato come incurabile, ma ognuno, ognuno che, senza progetto e senza programma di vita, si nutrisse del luogo comune imperante in ogni ambito della società, oltre che nella medicina.

I luoghi comuni della medicina, infatti, si ritrovano nei luoghi comuni della finanza o del diritto. Partendo dalla credenza che esista una verità da scoprire, quale professione non prospera sull’accanimento da una parte e sulla minaccia dall’altra? Minaccia di morte, minaccia di prigione, minacce da cui il professionista di turno potrebbe mettere in salvo l’assistito. E i luoghi comuni che la medicina applicava al corpo, oggi sempre più, sono applicati all’impresa: troppo spesso si sente dire che la tale impresa è malata, che ci sono rami secchi da tagliare e mele marce da buttare, interventi chirurgici o farmacologici da compiere perché possa guarire. Il corpo, interrogato, deve giungere a dire la verità e la verità è che le aziende come gli essere umani, “nascono, crescono e muoiono”. L’intervento migliore sarebbe dunque quello che meglio riuscisse a sapere in quale fase del ciclo di vita si troverebbe il malato, che, affidandosi al medico, dovrebbe collaborare, accettare la terapia come necessaria al proprio bene – bene che poi consisterebbe nella rinnovata capacità di accettare il proprio presunto essere mortale. Ma malattia invece, dal latino male aptus, vuol dire “non adattamento”. Eppure, il sintomo, che interviene per indicare un non adattamento, nel discorso occidentale viene convertito nel segno di una patologia. Anziché indagare le ragioni del non adattamento, quindi, ci si attarda nella ricerca di una patologia come causa del sintomo. E siamo ancora alla credenza nel corpo visibile come tavola per scoprire la verità del mondo invisibile delle idee che presiedono alla nostra esistenza.

Eppure, ancora prima della psicanalisi – che  constata che il corpo e la scena sono nella parola, né visibili, né segreti –, chi potrebbe ignorare l’apporto del cristianesimo nel testo occidentale? Nell’atto di Cristo neppure il corpo è mortale. Con l’atto di Cristo nessuno può più essere esente dallo statuto intellettuale, ossia, nessuno può delegare l’autorità e la responsabilità del proprio itinerario. Ci accorgiamo che qualcosa non va e qualcosa non funziona, nella famiglia, nella scuola, nell’impresa? Interpelliamo i tecnici, ma per instaurare con ciascuno un dispositivo intellettuale, in direzione della qualità, non per chiedere l’intervento salvifico, la soluzione del deus ex machina. Si tratta di trovare il modo non perché tutto vada e tutto funzioni, ma perché, anche in seguito a una cosiddetta malattia incurabile, o a una grave crisi dell’impresa, il progetto e il programma di vita non solo non vengano meno ma incontrino un rilancio. Chi si ponesse in uno statuto sociale o professionale – ossia volesse dimostrare di saperla lunga sul presunto male dell’Altro – si limiterebbe a confermare il fantasma di padronanza sul corpo e sulle cose che da sempre contraddistingue il discorso occidentale. L’atto di Cristo, invece, mette in questione proprio la presunzione di conoscenza, presunzione su cui si basa ogni confessione, prima ancora che ogni professione. Il corpo non muore, quindi, gli umani non vanno verso la scena del male. Le cose non finiscono. Solo partendo dall’idea della fine, la medicina – e, accanto a essa, la psicologia, il comportamentismo, la sociologia, lo sperimentalismo – potrebbe proporre la terapia come variabile di un cammino segnato verso la morte. La stessa idea hegeliana di evoluzione e progresso – per esempio, di un malato verso la guarigione o di un’azienda verso la ripresa – è debitrice dell’idea di tempo come durata, quindi, come linea, con un inizio e una fine, su cui è basato il discorso occidentale. Solo partendo dal riferimento alla morte, il viaggio della vita sarebbe circolare, all’insegna del ciclo naturale dell’esistenza, in cui le cose “nascono, crescono e muoiono”. E allora la terapia servirebbe al riscatto: chi è malato? Chi non si adatta all’essere della morte. Chi è sano? Chi ha imparato l’arte di vivere, ossia chi da schiavo è diventato padrone, padrone di morire, o padrone di dire la verità sulla morte.

Ma qual è l’intervento oggi che intende la terapia come variazione costante del viaggio, anziché come alternativa prescritta, come finalità – come fa per esempio, la ludoterapia o, addirittura la musicoterapia, che considera il gioco non come aspetto dell’itinerario, accanto all’invenzione, ma come tecnica per guarire, per liberarsi dal male? L’intervento del brainworker, nella medicina, nella famiglia, nell’impresa, mira a instaurare un’altra terapia, una terapia come vicenda della gloria. Per questo non ha il male dinanzi, non cerca di restituire la salute ripristinando lo stato preesistente al presunto intervento del male, non cerca di far quadrare i conti. La restituzione cui punta il brainworker, statuto intellettuale, non sociale o professionale, è la restituzione in cifra. Sembra paradossale, ma, come constata nei suoi scritti Armando Verdiglione, il sintomo è terapeuta, non ha nulla di negativo, è una risorsa della parola. Come eliminare il sintomo, quindi, senza privarsi  di una risorsa insostituibile per la salute come istanza di cifra, istanza di qualità della vita? L’intervento del brainworker è l’intervento in direzione della qualità, quindi, l’intervento in cui importa la restituzione in cifra, importa che la memoria, lungo il racconto – che si fa di sogno e di dimenticanza –, si scriva. Nella battaglia costante di ciascuna giornata non importa quanti rami secchi sono da tagliare, quante mele marce sono da buttare o se le vacche grasse seguiranno a quelle magre, ma come ciascuna cosa entra nella memoria in atto e contribuisce alla sua scrittura.

Le cose vengono dal corpo immortale e vanno verso la scena non sacrificale. Dalla combinazione di corpo e scena nella parola la cifra, quindi, la salute. Per questo, la medicina della parola non può prescindere dal ritmo del viaggio intellettuale, in cui la cultura e l’arte, la macchina e la tecnica, l’invenzione e il gioco, la formazione e la terapia, il percorso e il cammino sono costanti e contribuiscono alla civiltà – civiltà senza progresso, regresso, evoluzione e involuzione –, alla civiltà in cui l’humanitas si basa sul diritto dell’Altro e le sue virtù: l’umiltà, la generosità e l’indulgenza. Virtù che ciascuno incontra facendo e concludendo, senza deleghe, rimandi o remore. Di queste virtù auspichiamo si nutra sempre più la medicina instaurando il cervello della vita.