La Città del Secondo Rinascimento

Numero 14 - L'impresa, l'avventura e il rischio

Sergio Dalla Val
cifrematico, brainworker, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

IL RISCHIO D'IMPRESA

Tra una guerra mediatica e un reality show, dal paradiso esotico all’inferno burocratico, l’avventura sembra essere diventata appannaggio dello spettacolo, dunque dell’ordinario: un’avventura facile, gestibile, tutto compreso, anche in campo erotico, non si nega a nessuno, purché circoscritta, sancita da trofei e attestati. Avventura senza rischio, contro il quale occorre creare sempre nuovi sistemi di protezione, identificato com’è con un pericolo mortale sempre più localizzato, qui nel mercato e nella globalizzazione, lì nell’Islam e nella Cina. Viene proposta così l’avventura come colpo di vita, contro il rischio come colpo di morte. Sullo sfondo, la paura, con cui vita e morte si allineano, con cui la vita deve soggiacere alla minaccia della morte.

Questa mitologia illuministico-romantica, questa religione della paura della morte è presunta guidare il pianeta, proteggere l’avventura, favorire l’impresa.

Ma la vicenda delle cose e la loro riuscita non hanno bisogno di aiuti o protezionismi: esigono intelligenza e strategia – che trovano nell’avventura la loro condizione – e poggiano sull’impresa – che è assicurata dal rischio. “Sempre quelle imprese che con pericolo si cominciono si finiscono con premio, e di uno pericolo mai si uscì sanza pericolo”, scrive Machiavelli. Cui fa eco il primo romanziere della modernità, Ludovico Ariosto: “Va il cavallier per quella selva immensa / facendo or una, e or un’altra via / dove più aver strane avventure pensa”.

Ma chi incarna oggi la virtù del principe di cui parla Machiavelli? Chi osa le audaci imprese di cui canta Ariosto? Quale capitano? Può dirsi imprenditore chi accusa l’euro, crede nella recessione, invoca dazi? Ha chance di riuscita chi si abbandona e abbandona, chi vende se stesso prima e la propria impresa poi, che si ridimensiona o fa dismissioni, chi si ricicla e si rigenera, chi delega ai manager e si affida ai tecnici?

Questo numero della nostra rivista procede dalla constatazione che il pianeta non è per la morte ma esiste nel rinascimento, nella modernità, nella globalizzazione cui anche l’Islam, la Cina e l’India tendono. Si tratta di verificare, nella testimonianza degli imprenditori, dei manager, dei banchieri, se e come l’Europa stessa sia nella modernità, anziché nella provincia e nell’arcaismo che sembrano pervaderla, almeno considerando la sua monumentale Costituzione e l’ancor più monumentale burocrazia.

L’Europa della modernità trova le sue radici nel rinascimento, nella cultura e nell’impresa, nell’arte e nella finanza, come sottolinea Antonio Baldassarre, non nell’illuminismo. In questa Europa non spaziale c’è Israele, come si avverte nella conferenza di Shimon Peres, ci sono i paesi arabi e quelli dell’Est: questione d’invenzione della civiltà non di scontro tra civiltà. La stessa normativa per le banche, Basilea 2, può risultare, come nota Massimo Zattera, una chance per il finanziamento dell’impresa, non una strozzatura del credito.

Gli imprenditori interpellati in questo numero testimoniano, come Guidalberto Guidi, quanto essenziale sia per l’imprenditore il rischio d’impresa, che è il rischio di riuscita, proprio del fare secondo l’occorrenza: senza questo rischio ci sono l’affanno e l’indaffaramento, l’impresa si blocca per i suoi stessi impegni e obblighi, come dimostra l’economista Donald Sull. Ma questi imprenditori, come in realtà ciascuno, non hanno alternativa alla riuscita, dunque non credono alle scelte obbligate. L’impossibilità della scelta obbligata, ovvero dell’obbligo alla scelta, comporta che l’avventura non sia né bella né brutta: è avventura intellettuale, contrappunto dell’astrazione, condizione dell’articolazione e dello svolgimento delle cose. Chi procede dall’apertura, da una scelta non esclusiva, constata che solo se localizzato o percepito questo contrappunto risulta una disavventura, anziché ciò che intesse la vicenda, il cammino con cui l’impresa giunge alla qualità. “L’avventura è la melodia dell’Altro”, scrive Armando Verdiglione, per questo chi pensa di poter scegliere esclude l’avventura, perché toglie di mezzo l’Altro.

Proprio se espunto, l’Altro è personificabile nel nemico, nel rivale, nel concorrente e, affrontato, diventa pericoloso. Ecco l’intolleranza, con cui il rischio si fa pericolo: pericolo giallo, pericolo dell’Altro, pericolo della differenza. Solo l’impresa di ciascuno può dissiparlo, perché l’impresa è assicurata dal rischio, non teme l’avventura e non può espungere l’Altro, il tempo, la differenza: l’imprenditore, nota Vittorio Fini, non può più essere un soggetto autorefenziale, senza la città o la politica dell’Altro. L’imprenditore è interessante, scrive in questo numero Armando Verdiglione a proposito del brainworking, perché scommette, rischia, ha bisogno assolutamente di un progetto, di un programma. Per l’imprenditore l’Altro, l’infinito, la differenza sono essenziali. Nessuna tolleranza dell’Altro senza l’impresa che, come nota Domenico Pillolli, non consiste in un insieme di strumenti e di prodotti, costituita com’è da flussi, valori, progetti, dispositivi infiniti e insostanziali, in cui l’altro tempo esiste. Il loro ritmo è il ritmo stesso della città, la loro scrittura è la scrittura stessa della civiltà.

L’impresa con il suo rischio dissipa l’ideologia della morte. Per questo, con la cifrematica, come scrive Mariella Sandri, l’impresa e la vendita non sono un optional, un’attività tra le altre, ma sono essenziali per la salute di ciascuno, cioè per la qualità della vita.