La Città del Secondo Rinascimento

Numero 14 - L'impresa, l'avventura e il rischio

Vittorio Fini
presidente dell'Unione Industriali Modena, presidente della holding FINIFAST

L'IMPRENDITORE ATTORE DELLA TRASFORMAZIONE

intervista di Anna Spadafora

A partire dalla sua esperienza, sia come presidente dell’Unione Industriali Modena sia come industriale di una holding importante nel settore alimentare, che cosa può dirci del rapporto fra istituzioni e economia? Secondo lei l’Italia e l’Europa hanno una crescita lenta anche a causa del loro rapporto con le istituzioni, che, nella maggior parte dei casi, è burocratico, frenante, più che incentivante per l’economia?

Questo è sicuramente uno dei temi centrali per ragionare dello sviluppo dell’Italia e dell’Europa. Ma purtroppo, a mio avviso, viene troppo poco trattato, perché non c’è dubbio che questa Europa all’interno della quale abbiamo scelto di entrare, se da un lato ancora non funziona e non è efficace, sarà (e questo è un augurio che dobbiamo farci) quel contenitore all’interno del quale verranno tracciate strategie e prese decisioni che di fatto governeranno lo sviluppo economico dei paesi aderenti. L’Italia sconta da sempre una scarsa rappresentatività all’interno dell’Europa e quindi, anche come sostenuto da Confindustria, la nostra sollecitazione va nella direzione di proporre uomini di responsabilità e capacità, che possano partecipare con autorevolezza. Questo è un problema interno al paese sul quale occorre veramente spingere le forze politiche, indipendentemente dal loro colore. Dopo di che, a livello europeo, bisognerebbe cercare, con maggior autorevolezza acquisita, d’identificare una modalità di maggior coesione, perché, ad esempio, di fronte a un attacco economico molto forte sferrato dalla Cina – paese molto diverso da tutti gli altri, paese senza regole –, vediamo che i tempi di reazione per prendere delle decisioni, senza entrare nel merito di quali siano le decisioni più idonee, sono molto lunghi. È un tema che va tenuto nella massima attenzione e occorre un grande pressing sulla politica perché ci siano grandi competenze e professionalità che ci rappresentino in quel contesto.

Che cosa può dirci della formazione di una vera classe politica in Italia? Lei ritiene che la carenza di cultura in generale e nella politica in particolare possa incidere negativamente nel governo del paese?

Non c’è dubbio. Questo è uno degli elementi che dovrebbe essere fondante per i politici che hanno assunto la responsabilità di guidare il paese, guidarlo stando al governo ma anche stando all’opposizione. Anche qui il paese dovrebbe affrontare un momento di cambiamento. Siamo passati da un sistema elettorale proporzionale a un sistema di bipolarismo, anche se imperfetto. La sensazione molto forte è che, così come stanno le cose, il bipolarismo non dia sufficienti garanzie al paese di un governo stabile e di un confronto costruttivo. Io credo che occorra andare avanti in questo ragionamento e, quindi, o modificare il bipolarismo o ritornare al proporzionale, ma comunque evolvere in un modello che sia il più idoneo per il nostro paese. La base culturale, la conoscenza culturale di tutto quello che è il paese e di tutta quella che è stata l’evoluzione politica, è e sarà fondamentale.

Questo vale anche per noi stessi, per le nostre aziende – tutte le aziende del territorio –, che hanno avuto in larga parte storie di grande successo: questo successo è stato figlio della storia dell’azienda, come è nata e perché, come si è evoluta; non sono mai stati processi banali quelli che l’hanno portata al successo, ma processi culturali. Sicuramente, gli imprenditori hanno utilizzato il loro intuito e le loro risorse, ma il bacino culturale che li ha accompagnati non è stato secondario. Purtroppo, la sensazione che si ha, in modo trasversale alla nostra politica, è che siano rimasti pochi coloro i quali hanno questo senso della cultura e hanno voglia di metterlo in campo. Fra i pochi ricordo Antonio Baldassarre il cui bagaglio culturale è di grande rilievo e potrebbe essere uno degli attori che ci aiutano a fare un passo avanti.

Infatti, proprio nella sua conferenza (Unione Industriali Modena, 22 aprile 2005), Baldassarre ha fatto un appello affinché sorgessero proposte in termini concreti e pragmatici da parte degli imprenditori come categoria, proposte che non fossero solo di tipo sindacale…

È vero. Credo che, un po’ strutturalmente, l’imprenditore italiano sia sempre stato, salvo pochi e limitati casi, un soggetto molto autoreferenziale, con una scarsa attitudine a occuparsi dell’esterno. Su questi temi ci sono grandi studi. C’è chi dice, forse non sbagliando, che questa connotazione, che per certi aspetti può essere anche negativa, abbia rappresentato una parte cospicua della forza dell’imprenditore. È abbastanza evidente che oggi stiamo affrontando momenti in cui quella forza non è più sufficiente. Quindi, ecco che una chiamata dell’imprenditoria a diventare più disponibile, a diventare attore di questi temi è sicuramente doverosa. Ma, pur condividendo il pensiero di Baldassarre, non ho una grande speranza in questo senso, in questo specifico momento, perché stiamo vivendo anni di una tale complessità per l’imprenditore – chiamato soprattutto a identificare modalità nuove per la propria impresa, a cambiare mentalità egli stesso – che credo che sia abbastanza difficile che nel breve possa entrare anche in quest’ottica. Questo non vuol dire che non vada sollecitato. Anzi, devo dire che questo è un tema che, tutte le volte che ci si riunisce in Confindustria, qualcuno pone, ed è un bene perché, appena fosse possibile, il paese ha bisogno di un contributo anche in questo senso.

Lei parla di complessità nell’affrontare questo momento…

Sono complessità operative, su cui possiamo fare una considerazione di questo tipo: è quasi certo che molte delle leve di successo che hanno portato le nostre imprese ad essere quelle che sono oggi non saranno più vincenti per il futuro. O meglio, probabilmente non sono più leve eccezionali, saranno la normalità, ma bisogna fare qualcosa di diverso, perché i mercati globalizzati mettono a confronto e in concorrenza situazioni molto diverse. Torno alla Cina, perché è un paese che vive al di fuori delle regole. Sempre più prevale il pensiero di cercare la manodopera là dove costa meno, perché lo sbilancio del costo della nostra manodopera non si aggiusta con una piccola modifica. E poi non possiamo dimenticare che all’interno dell’azienda occorre una mentalità molto più aperta, quindi, non più l’imprenditore padre padrone, ma quello che sa scegliere una squadra di collaboratori che lavora in team, in equipe. Per non parlare di un altro tema centrale, che è la dimensione dell’impresa. Qui, in Emilia Romagna, come sappiamo, il tessuto è fatto di tantissime piccole e medie imprese, ma probabilmente la nostra è una dimensione critica. Eppure, come può un imprenditore in breve tempo aumentare le proprie dimensioni? Dovrebbe cercare di mettersi d’accordo con un concorrente o con il vicino di casa e cercare di unire le aziende. Tutti processi che, anche culturalmente, impongono grandi sforzi, grande disponibilità e tanto tempo, mentre vediamo che i cambiamenti stanno avvenendo a una rapidità irrefrenabile. Quindi, c’è un divario enorme fra i tempi necessari all’imprenditore per convertirsi in direzione della trasformazione e la velocità con cui cambia il mercato a cui l’imprenditore si rivolge. E questa è una grande complessità.