La Città del Secondo Rinascimento

Numero 21 - La modernità

Ferdinando Cionti
giurista e giornalista

SÌ, LOGO

Non vi racconterò il contenuto di Sì, logo (Spirali). Tengo troppo a questo mio lavoro per rovinarmelo e rovinarvelo. Vi racconterò come e perché il marchio, che ne è l’oggetto, è divenuto il centro del mio interesse professionale e scientifico.

Desidero innanzitutto chiarire un aspetto legato al rapporto del marchio con lo sviluppo economico. Il marchio, che è comunicazione, è indispensabile al commercio e allo sviluppo economico in genere. Si può essere favorevoli o anche contrari alla globalizzazione – come i no-global, che propongono di ritornare ai redditi del 1960 –, ma in ogni caso non si può non riconoscere il valore del marchio nel processo di sviluppo economico; persino Naomi Klein, autrice del celebre libro No logo, la “bibbia” dei no-global, afferma che il marchio ha una diffusione addirittura maggiore della lingua inglese. E, del resto, per rendersene conto, basta immaginare di trovarsi in un paese del quale s’ignora la lingua, entrare in un supermercato e vedere sugli scaffali delle lattine di Coca Cola: chiunque di noi saprebbe subito di che prodotto si tratta, senza bisogno di nessuna descrizione, analisi chimica e quant’altro. Per questo, un imprenditore che voglia espandersi oltre il territorio locale non può prescindere da un mezzo di comunicazione (o, se si vuole, un media) insostituibile, affinatosi in secoli di esperienze e studi, come il marchio.

Il secondo aspetto che desidero sottolineare riguarda la differenza fra marchio collettivo, o di qualità, e marchio individuale. Caratteristica del marchio collettivo è quella di essere garante della qualità del prodotto in maniera oggettiva, facendo riferimento a una serie di regole codificate e condivise. Ciò consente al consumatore di essere certo di determinate qualità del prodotto senza dover necessariamente possedere competenze tecniche specifiche.

La sua funzione, infatti, è quella di rappresentare le caratteristiche del prodotto, prefissate in maniera chiara e perdurante costantemente nel corso del tempo. Con riferimento a questa funzione, il marchio collettivo è uno strumento indispensabile: la sua presenza, ripeto, significa inequivocabilmente la presenza di certe qualità prestabilite e costanti, senza bisogno di controlli da parte del consumatore che, peraltro, nella quasi totalità dei casi, ne sarebbe incapace.

Un meccanismo semplice e chiaro che, perciò, dal punto di vista giuridico, pone pochi problemi d’interpretazione. Deve essere soltanto gestito con onestà e cura e difeso da contraffazioni o usurpazioni da parte di terzi.

Il marchio individuale, invece, ha una funzione completamente differente dal garantire la qualità del prodotto (io sono giunto alla conclusione che lo distingue non per ciò che è oggettivamente, ma per ciò che è per ciascuno, attraverso il percorso riassunto nel libro, cui rinvio, mentre qui mi limito a riferirvi i termini del problema). Pensate a un altro marchio celebre, Esso o Exxon, che è appunto un marchio individuale: è evidente che non ha nessuna relazione diretta di significato con la benzina, che è il prodotto che distingue, o con gli elementi che lo compongono.

Dunque, possiamo dire che è una parola senza senso comune. Malgrado ciò, il marchio individuale in genere può avere, e questo in particolare ha, un enorme valore. Per quale motivo?

Questo è stato il problema – di tutt’altro che agevole soluzione – che ha suscitato la mia curiosità e che mi ha indotto a occuparmi del marchio. Naturalmente, per prima cosa, mi sono informato sullo “stato degli atti”, e cioè sulle conclusioni cui era pervenuta la dottrina giuridica, constatando che fino al 1961 la tesi prevalente era che il marchio fosse definibile come bene immateriale.

In particolare, il marchio era descritto come una “creazione intellettuale” paragonabile a un romanzo o a un quadro, ma con una differenza di non poco conto, e cioè che nel caso del marchio l’apporto creativo è piuttosto esiguo. Pensiamo al marchio Nutella. Nut in inglese significa noce e Nutella significa quindi qualcosa di simile a “nocella”, che è uno dei componenti del prodotto: è evidente che il processo creativo – che sostanzialmente si riduce all’adozione di un diminutivo – non è dei più originali. Non che il marchio non potesse assumere un autentico valore creativo, ma in tal caso – si precisava giustamente – andava tutelato anche al pari di un’opera d’arte, oltre, e accanto, alla sua tutela come marchio.

Insomma, il marchio sarebbe una creazione intellettuale, a condizione che non lo sia, perché se lo fosse sarebbe tutelato autonomamente e diversamente in quanto opera d’arte: la contraddizione di fondo era evidente e insostenibile. Fermo restando che quando il marchio è una vera e propria creazione intellettuale, va tutelato anche come opera d’arte, quando non lo è; quando è un semplice segno distintivo, senza ambizioni e qualità artistiche, che cosa è?

Inoltre il marchio, al pari delle opere d’arte, va estrinsecato: non è possibile limitarsi a pensare un romanzo o a immaginare un quadro, è necessario esprimerli, realizzarli, e altrettanto avviene per il marchio. Ma non basta, il caso del marchio è ancora una volta anomalo: non è sufficiente realizzarlo, è necessario anche usarlo e a usarlo non può essere uno qualunque, ma deve essere un imprenditore, qualcuno che voglia contraddistinguere i propri prodotti.

Insomma, il marchio era definito come una creazione intellettuale, ma in realtà non era affatto necessario che ne avesse le caratteristiche, mentre era necessario che ne avesse altre, a loro volta non necessarie alle creazioni intellettuali tradizionali. Allora, ancora una volta, che cosa è?

Nel 1961 venne pubblicato un saggio rivoluzionario, poi divenuto celebre, che superava tutte queste considerazioni. L’autore sosteneva, infatti, che il marchio non può essere una quidditas – un’entità autonoma – ma sarebbe, al più, una qualitas, perché informa sulla provenienza del prodotto cui è indissolubilmente collegato e, perciò, impossibilitato a sopravvivere autonomamente. Senza entrare nel merito squisitamente tecnico, possiamo dire che, dal punto di vista teorico, questo approccio – che fu quello dominante fino alla fine del secolo scorso e tuttora è come accantonato, ma non discusso e, tanto meno, respinto, dalla quasi totalità della dottrina – poteva anche avere una sua coerenza, ma si scontrava frontalmente con la pratica, perché questo nulla, questa “non-entità”, poteva arrivare a valere miliardi di dollari: il marchio, non il prodotto cui era collegato. L’asset più importante delle multinazionali, infatti, non erano già – e sempre più non sono – i beni materiali, gli stabilimenti, i macchinari, le stesse unità di prodotto contrassegnate che, per quanto innumerevoli siano, si consumano e muoiono, ma i marchi, che non si deteriorano e sopravvivono a tutto, anche alle imprese che ne sono titolari. Ne è un recente esempio a voi vicino la Parmalat, che è fallita, ma il cui marchio le è sopravvissuto e distingue i prodotti così contrassegnati, che si vendono ancora.

Comprendere perché una presunta “non-entità”, qualcosa che non avrebbe neppure una propria vita autonoma, avesse tanto valore era un tema ampio e complesso da affrontare, che non coinvolgeva soltanto il diritto, ma anche altre scienze come quella del linguaggio (per i marchi denominativi), della fisiognomica e della critica dell’arte (per i marchi figurativi), della semantica (in quanto alla fine il marchio è, tutti i tipi di marchio sono, prima di tutto, segni). Ma, per definire il segno bisognava definirne il “concetto”, che a sua volta era tutt’altro che agevole da definire, posto che da Socrate in poi è l’oggetto centrale della speculazione filosofica. Vale a dire che l’interrogativo posto coinvolgeva quasi tutto lo scibile umano. Un campo d’indagine immenso, un mare senza confini, attraente e scoraggiante. Io mi sono tuffato in questo mare con lo stato d’animo che molto probabilmente è lo stesso che prova ciascun imprenditore all’inizio di una nuova attività. Avevo un obiettivo, ma non un programma preciso, ero irresistibilmente attratto dal fascino dell’argomento e, nello stesso tempo, “atterrito” dalla sua complessità. Comunque, mi sono tuffato, ho nuotato senza sosta e quando, sfinito, temevo di (e, forse, anche desideravo finalmente) annegare, ho scorto in lontananza uno scoglio che emergeva dall’uniforme distesa delle acque e mi sono aggrappato.

Ora vi chiedo di seguire il mio percorso leggendo questo libro, Sì, logo, per aiutarmi a capire se lo scoglio cui devo la mia sopravvivenza di giurista è solido e fermo come mi sembra o… sarà meglio che cambi mestiere.