La Città del Secondo Rinascimento

Numero 21 - La modernità

Sergio Dalla Val
cifrematico, brainworker, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

LA MODERNITÀ DEL SECONDO RINASCIMENTO

Quando incomincia la modernità? Da che cosa è contraddistinta? Nasce con Cartesio e con l’illuminismo europeo? O con John Locke e con l’illuminismo anglosassone? È rintracciabile anche in Pico della Mirandola o esige Galilei? Ma si può parlare di città moderna senza l’apporto di Leonardo da Vinci o senza la scienza nuova di Giambattista Vico?

Secondo l’ideologia illuministica, che reagisce al rinascimento, la modernità poggia su una scienza affrancata dalla fede, pertanto, su una concezione del mondo che, specialmente con Cartesio, non ha più bisogno di dio per pensare le cose. E nemmeno, dunque, per governarle. Questo laicismo scientifico diventa laicismo politico perché, tolto dio dalla storia, esige il soggetto come base per il pensiero e per l’azione, dunque, vero referente dei diritti dell’uomo della rivoluzione francese. Infatti,  i diritti dell’uomo sono ammessi nei paesi che vivono nell’area del soggetto illuministico, il soggetto dei diritti, non in quelli che non hanno conosciuto l’illuminismo.

Ma la scienza moderna è forse nata con le idee chiare e distinte, giustificate da un dio garante esterno come in Cartesio? O piuttosto con gli universali fantastici di Vico, la cui provvidenza è tutt’altro che religiosa? La politica moderna viene dal realismo di Hobbes o dalla diplomazia di Machiavelli? Aderire alle  mitologie illuministico-romantiche è il prezzo da pagare per accedere alla modernità? I canoni della modernità comunemente intesa sarebbero la fiducia nel progresso, il primato della tecnologia, la ricerca dell’immortalità. In altri termini, la fissazione di limiti soggettivi e il loro superamento, per fissarne altri. Fino alla morte come supremo limite, da combattere assumendolo. Questa visione del mondo viene dal romanticismo tedesco, da Fichte a Hegel, passando per il regno dei fini di Kant. Ma dal superamento alla superiorità, dal proprio diritto al diritto sull’Altro il passo è breve, è il passo che, nel novecento, ha portato al discorso della guerra e ai totalitarismi, che hanno trasformato ciascuna guerra nel genocidio, nella guerra civile. È questa la modernità, basata sulla morte, che si vuole esportare, in nome dell’integrazione? Non c’è chi possa dare la patente di modernità. I paesi che si affacciano oggi alla civiltà non hanno da assimilare Platone e Aristotele, Cartesio e Hegel: rischierebbero di trarne la conflittualità permanente, il primato dell’estremismo, il trionfo del terrore.  Com’è accaduto a Mosca e a Baghdad, sobborghi di Vienna e Atene. Come può esserci integrazione se, a est come a ovest, viene esercitata la ragione sull’Altro e se viene applicata la logica dell’alternativa esclusiva, cioè se i propri diritti comportano la negazione del diritto dell’Altro? Forse questa pretesa modernità del progresso, del limite posto per essere scavalcato, è quella che faceva annotare a Roland Barthes nel 1977 nel suo diario: “D’improvviso, il fatto di non essere moderno mi è diventato indifferente”.

Ma oggi l’indifferenza non basta più. L’indifferenza in materia di cultura, di arte, di umanità sta degradando la città a necropoli,  a città in cui la morte, e con essa la paura e la colpa, regna sovrana. Occorre un’altra nozione di modernità, di cui la città sia emblema, cessando di essere sospesa tra le esigenze dell’innovazione, della globalizzazione e della comunicazione planetaria, da una parte, e i rigurgiti degli arcaismi (il sistema psichiatrico secondo Joseph Berke o le multinazionali del farmaco secondo Mhlongo), dei provincialismi e dell’intolleranza, dall’altra. Ecco la questione posta da questo numero della rivista sulla modernità: in che modo la città, e nel nostro caso Bologna, diviene città della modernità? Con quali dispositivi economici, finanziari, politici? Con quali nuovi mestieri, arti, professioni, imprese?

La modernità non è terminata per lasciare il posto alle ideologie mortifere della postmodernità, né è una virtù naturale dell’occidente da opporre al resto del pianeta. La modernità da conquistare è l’instaurazione del modo della vita, che procede dall’apertura e va in direzione della qualità e della valorizzazione, da cui l’arte, la cultura e l’impresa sono imprescindibili. Modernità della parola, ovvero modo dell’apertura e modo dell’infinito: non c’è un sistema moderno per fare funzionare le cose, impossibile essere moderno, cioè stare al passo con i tempi, con le epoche, con il luogo comune. Occorre che ciascuno trovi il modo del dire, del fare, dello scrivere: mai come oggi, cittadino non è chi gode dei diritti, ma chi contribuisce all’instaurazione della città, alla sua invenzione, alla sua arte, al suo processo di valorizzazione. Più che essere una capitale, la nostra città deve volgersi in direzione del capitale, del capitale intellettuale. Inventare ancora la città: questa la scommessa della modernità da cui le istanze del cifrematico, dell’art ambassador e del brainworker sono imprescindibili, per non girare a vuoto o in tondo,  per dissipare la paura, la colpa e la pena.

La città della modernità è la città del tempo, città dell’invenzione e dell’arte, della cultura e dell’industria, della scienza e della finanza. Istanze della parola originaria, che esige la differenza e la variazione, la tolleranza e l’ospitalità.