La Città del Secondo Rinascimento

Numero 27 - Questioni di salute

Anna Spadafora
cifrematico, psicanalista, direttore dell'Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

LA CURA PROCEDE DALL'IRONIA

Se c’è qualcosa che il libro Questione cancro (Spirali), di Georges Mathé, Elisabetta Pontiggia e Paolo Pontiggia, sottolinea fin dal suo titolo è che il cancro è una questione, più precisamente, una questione aperta, non una questione chiusa, un male incurabile rispetto a cui non c’è niente da fare. Non esiste, nella vita di ciascuno, una giornata in cui non ci sia niente da fare. Ne va della salute come istanza di qualità della vita che ci sia il fare ciascun giorno. Per questo la battaglia per la salute esige che ciascuno impari a gestire i problemi, compresi quelli che sembrano provenire da un cosiddetto “brutto male”, e gestire implica capire e intendere, quindi intervenire. Ma, oggi più che mai, per quanti farmaci e terapie possiamo avere a disposizione, l’intervento è nella parola, è l’intervento intellettuale, che contribuisce a dissipare ogni pregiudizio e ogni luogo comune che fa da sbarramento alla qualità della vita, quindi alla salute. Senza l’intervento intellettuale, ognuno può credere che il cancro sia un segno del destino – “È toccato a me, perché proprio a me?” –, un segno del male o del peccato, la pena che segue a una presunta colpa.

Dire questione cancro, invece, implica che niente, neppure il cancro, possa rappresentare il male. Questione aperta perché bene e male stanno alle spalle, non dinanzi a incarnare il fine della battaglia. Che cosa sarebbe una vita dedicata alla ricerca del male da sconfiggere? Una vita in cui il male è padrone assoluto. La battaglia, invece, non è contro qualcosa o contro qualcuno, ma per la riuscita delle cose che si fanno secondo l’occorrenza, ciascun giorno, indipendentemente dalle malattie e dai problemi in cui ciascuno può imbattersi nel viaggio della vita.

Il pregiudizio che incombe su chi riceve una diagnosi di cancro è proprio questo: che non abbia più carte da giocare, come se da quel momento la funzione di nome fosse negata per lasciare spazio alla significazione. Allora, per esempio, Marco Rossi, anziché un nome che funziona nella parola, diviene un significante, significa un uomo in attesa della morte, un cosiddetto malato terminale: non viene più invitato alle occasioni d’incontro, nessuno lo considera un partner per iniziative e progetti futuri e ciò che egli dice viene o idealizzato – in quanto vicino alla morte –, o assolutamente ignorato, oppure, ascoltato all’insegna della compassione. Ma chi avrebbe osato definire malato terminale Freud, nel periodo in cui scriveva la Metapsicologia e un tumore alla mandibola gli procurava atroci dolori? E così Fritz Zorn, autore del romanzo autobiografico Il cavaliere, la morte e il dialogo, morto di cancro poco più che trentenne, era tutt’altro che un malato terminale, scriveva pagine di lucidissima analisi della società conformista di Zurigo, che egli riteneva “responsabile” del suo cancro, perché votata alla ricerca del bene a tutti i costi e di una vita in cui ciò che non si capiva veniva definito “difficile” e quindi negato, una vita senza ironia, dove le questioni devono essere chiuse prima possibile.

Oggi si parla più spesso di terapia che di cura, ma la cura procede dalla questione aperta: non a caso la parola greca “eironéia” (“ironia”) indicava proprio la questione aperta. Il cancro stesso, se lo intendiamo come animale fantastico – il granchio, da cui deriva la parola cancro –, è una figura dell’ironia. Come se una vita senza ironia, dove tutto deve quadrare, non si ammette la contraddizione, non si ammette l’apertura e si chiede alla medicina la padronanza assoluta e infallibile sulle malattie, non potesse che prendere un granchio.

Allora, se c’è un’indicazione che possiamo trarre da uno dei cosiddetti mali del ventesimo secolo, sta proprio in questo: la cura procede dalla questione aperta e non si limita alla terapia, ma esige l’instaurazione del dispositivo immunitario, dove la cura è del tempo. Nessuna immunità, infatti, se partiamo dall’idea che il tempo finisca. Se il male è posto dinanzi, già il dispositivo immunitario è venuto meno e allora occorre difendersi, proteggersi dal nemico da attaccare ed eliminare, secondo la stessa logica del conflitto applicata nella politica e nell’economia, che è frutto della filosofia aristotelica, una logica in cui trionfa il discorso paranoico con il suo tentativo di realizzare l’autonomia locale, al posto del dispositivo immunitario. L’autonomia locale dovrebbe assicurare la salvezza, il cerchio da cui l’Altro è escluso, le mura di cinta ben fortificate e pronte a sgominare qualsiasi nemico esterno? Ebbene, è come se il cancro riproponesse, dall’interno, la caricatura di questo conflitto messo in atto nel tentativo di autonomia locale: il DNA viene leso, la cellula diviene ingovernabile e il dispositivo immunitario non riesce a controllare le mutazioni. Allora, è come se il cancro reintroducesse l’ironia, l’apertura, laddove la questione sembrava chiusa e il fantasma di padronanza del discorso paranoico realizzato. Ecco perché l’intervento non può essere localizzato in nessuna malattia, a maggior ragione nel caso del cancro. Significherebbe riproporre la stessa logica del discorso paranoico, il trionfo dell’autonomia locale.

L’intervento intellettuale è l’instaurazione dei dispositivi di parola, dispositivi pragmatici, dispositivi di scrittura, dispositivi di qualità, in cui è essenziale l’ascolto. L’ascolto, alla punta del malinteso, dissipa la padronanza, che invece impedisce la salute come istanza di qualità della vita. Nel libro Questione cancro si avverte la disposizione all’ascolto da parte dei suoi autori, non c’è traccia di polemica o di fanatismo. Il medico in questo libro non è colui che si sente detentore del sapere sulla vita e sulla morte, ma colui che, con grande umiltà, espone il frutto della propria ricerca e della propria esperienza e fa sempre appello alla distinzione tra un caso e l’altro, tra un tumore e l’altro, tra una fase e l’altra dello stesso tumore, ai fini dell’efficacia degli interventi di volta in volta.