La Città del Secondo Rinascimento

Numero 13 - Le donne, l'impresa, la comunicazione

Giovanni Azzaroni
docente di antropologia dello spettacolo, Università di Bologna

LA MASCHERA IN OCCIDENTE E IN ORIENTE

Da anni mi occupo del recupero delle tradizioni popolari italiane, che vanno perdendosi sempre più. Nel libro di Bachisio Bandinu, La maschera, la donna, lo specchio (Spirali) ho trovato molte differenze rispetto ai miei studi, ma anche molte analogie. La cultura occidentale e orientale – mi riferisco soltanto all’Oriente, non parlo dell’Africa – sono veramente molto distanti e questo non è certamente un dato negativo. Tuttavia voglio partire da un’analogia che mi è sembrata particolarmente significativa e che riguarda la maschera, da sempre oggetto dei miei studi. Nel libro di Bandinu c’è un’affermazione apodittica e di grandissima rilevanza antropologica, secondo cui le maschere dei Mamuthones sono l’intersezione tra il mondo dei morti e quello dei vivi. Questa affermazione, esattamente come è stata formulata, sembra scritta da Zeami, il teorico del teatro no. Agli inizi del 1400, Zeami scrive che la maschera è il tramite antropologico che colma lo iato tra il tempo in cui l’evento è realmente o miticamente avvenuto e il tempo della rappresentazione. È esattamente quello che Bandinu scrive nel suo libro. Ho trovato questa affermazione di grandissimo interesse, perché colma un apparente ossimoro tra la cultura d’oriente e la cultura d’occidente. La maschera è un tramite antropologico per far sì che un dramma che si è sviluppato nel passato sia proposto nel presente. Esattamente come la maschere dei Mamuthones.

Quando parlo di oriente e di occidente non utilizzo mai i termini “uguaglianza” o “similitudine”, perché mi sembrano falsi storici e culturali. Uso sempre il termine “analogia”, antropologicamente corretto perché non si può dire che la maschera di un Mamuthone sia uguale a una maschera indossata da un attore no. La prima fa riferimento alla cultura sarda, la seconda alla cultura giapponese.

Vorrei, ora, sottolineare alcune differenze essenziali che esistono tra la maschera dei Mamuthones e le maschere in oriente. Bandinu scrive che la maschera non è Dio. È un’affermazione molto importante e molto interessante perché è in assoluta controtendenza con quello che è, invece, la maschera in oriente. Qui, la maschera non è Dio, ma è immagine di Dio. Ci troviamo davanti a una situazione completamente diversa. La maschera in oriente trasforma l’attore nel personaggio, e proprio nel momento in cui indossa la maschera l’attore viene cavalcato dalla divinità che quella maschera connota. L’affermazione è particolarmente interessante perché, in oriente, non tutte le maschere sono sacre in se stesse, lo sono solo nel momento della rappresentazione. Una volta che l’attore si è tolta la maschera, questa torna a essere un oggetto di legno o di cartapesta. Sono pochissimi gli esempi di maschere sacre in se stesse. Le più note sono le maschere del Barong del teatro balinese, che continuano a mantenere tutta la loro magia anche se sono riposte in ceste, nel cortile più interno del tempio. Bali è ormai un’isola in cui si fanno spettacoli per i turisti e le maschere hanno perso la loro funzione sacrale, sono soltanto oggetti che s’indossano nel momento di salire su un palcoscenico. Però a Bali vengono ancora celebrate cerimonie che non sono rivolte a turisti. In questi casi, l’attore che interpreta il ruolo di Rangda – la forza negativa della natura, in opposizione al Barong, la forza positiva della natura – dev’essere vecchio, perché solo un attore vecchio è in grado di controllare i poteri malefici che la maschera gli trasmette. Se la indossasse un attore giovane morirebbe. Solo un attore anziano, che ha intrapreso il cammino dello yoga, può mettere quella maschera. La maschera diventa, dunque, un oggetto vivente e non più neutro.

Lo stesso discorso, in oriente, vale per il trucco. Ci sono generi teatrali che prevedono trucchi pesanti e non la maschera. Bandinu parla anche del trucco: i Thurpos si tingono il volto con la cenere nera. Anche se è una coloritura uniforme è sempre un trucco. Non voglio entrare nel merito della discussione se sia nato prima il trucco o la maschera, non esistono certezze scientifiche per affermare l’una o l’altra tesi. In occidente si potrebbe dire, per esempio, che, forse, è nata prima la maschera. Nel V secolo a. C., gli attori della tragedia greca portavano la maschera. Probabilmente, in precedenza esistevano casi di attori che non portavano la maschera e venivano semplicemente truccati. Una ipotesi di cui sono assolutamente certo è che l’uno non ha sostituito l’altra e viceversa. Alcuni studiosi tendono a dire che il trucco, almeno nel teatro asiatico, avrebbe sostituito la maschera perché questa impedisce una perfetta emissione vocale. Ricordo che la maschera greca aveva proprio una funzione di amplificazione, per questo tutti gli attori la portavano. Mi sembra, dunque, un’affermazione errata sul piano tecnico, oltre che culturale, e credo che la maschera e il trucco appartengano a forme teatrali diverse.

Tornando al libro di Bandinu vorrei dire alcune cose che si riferiscono alla donna. Anche qui ho notato un’interessantissima differenza tra il ruolo della donna di cui parla Bandinu e il ruolo della donna in oriente. Nella maggior parte dei generi teatrali, almeno quelli più nobili, le donne non sono ammesse e anche i ruoli femminili sono interpretati dagli uomini. Ma dove le donne sono ammesse portano senza problemi la maschera.