La Città del Secondo Rinascimento

Numero 31 - La libertà, l'arte, l'impresa

Luciano Passoni
ingegnere, amministratore di SIR, Modena

QUALE SOCIETÀ, QUALE IMPRESA, QUALE FINANZA

La nostra società sta attraversando una crisi finanziaria e industriale senza precedenti: i motivi di questo collasso del sistema vanno ricercati innanzitutto nelle errate scelte organizzative e gestionali compiute negli ultimi due decenni.

Soprattutto per quanto riguarda il nostro paese, dove la crisi si manifesta a un livello più prettamente industriale che finanziario, è mancata negli anni precedenti la volontà di operare una corretta rivalutazione del patrimonio produttivo. Questo è un limite culturale del nostro tempo e della nostra imprenditoria: si è preferito guardare al profitto immediato piuttosto che creare un solido futuro, si è scelto di delocalizzare piuttosto che rafforzare il tessuto industriale, di puntare sulla vendita di servizi e prodotti virtuali invece che di manufatti concreti, dimenticando che la nostra è una nazione priva di materie prime, che ha incentrato il proprio cammino economico dal dopoguerra a oggi proprio sulla produzione reale. A causa di questo errore, ora raccogliamo i frutti di un patrimonio industriale abbandonato a se stesso e sulla via di un continuo smantellamento. Ma ricordiamoci che per creare vera ricchezza occorre produrre beni reali: se qualche banchiere o magnate della finanza vi dirà il contrario, ricordategli che egli non sta producendo ma solo gestendo il denaro altrui. Sono le imprese che creano la vera ricchezza e il paradosso risiede proprio nel fatto che nel nostro paese stiamo facendo di tutto per smantellarle. Ma chi usufruirà dei servizi quando non ci sarà più liquidità a portata di mano per il comune cittadino, quella liquidità che solo la produzione può generare?

La colpa di questo arretramento economico è di molte categorie e di molti fattori: primo fra tutti il nostro vizio incredibile e unico sul panorama mondiale di tirarci da soli la zappa sui piedi, seguito dalla nostra mancanza di orgoglio nazionale per una patria, per la sua storia e per le sue potenzialità. A questo malcostume di fondo, si aggiunga che nell’amministrazione di molte aziende sono intervenute le banche e i gruppi finanziari, che hanno guardato principalmente al profitto nel breve periodo, agli investimenti che si ammortizzano in meno di un anno, alla minimizzazione del rischio. I manager arrembanti posti alla guida delle aziende hanno spolpato le strutture rendendole sterili, mungendo la vacca quotidianamente senza alimentarla, portandola così a morte sicura. In questi tempi difficili, proprio quando avremmo bisogno di un’industria forte e competitiva, ci viene invece presentato il conto di questo tipo di gestione. Ma fare impresa significa dare continuità all’azienda, fare progetti a media e lunga scadenza, investire anche con il cuore e non solo osservando i numeri nell’ultima riga del bilancio; significa creare una propria creatura e saperla guidare con mano sicura anche nei momenti di grande difficoltà, per tutta una vita, facendola crescere e rendendola grande e prestigiosa, amandola e sentendola come una parte di sé: queste sono le caratteristiche del vero imprenditore. Siamo capaci tutti di far quadrare i bilanci aziendali per uno o due anni, distruggendo e smantellando strutture e know-how, gettando i semi per il sicuro disastro che avverrà nel medio termine, intascando una buonuscita faraonica e migrando l’anno successivo a provocare danni in altre realtà. Quanti ne abbiamo visti di questi manager, impegnati a salvaguardare esclusivamente il proprio tornaconto personale? Ma ora è davvero giunto il momento di distinguere tra chi sa ed è in grado di fare e chi non sa ed è capace esclusivamente di disfare: il resto è solo fumo negli occhi. È tempo di ridare il giusto valore e il giusto peso ai veri generatori di ricchezza, a coloro che si nutrono di entusiasmo e impegno.

Allo stesso modo, abbiamo preferito le multinazionali alla straordinaria ricchezza del nostro tessuto industriale caratterizzato da piccole e medie imprese. Negli ultimi tempi tutti si sentono in obbligo di affermare che con la piccola e media impresa non si va da nessuna parte. Tale affermazione è sterile, nel senso che le grandi imprese non nascono come funghi: quindi, il nostro panorama industriale frammentato in una miriade di realtà non potrà essere modificato nel breve e medio termine e, volenti o nolenti, dovremo vincere crisi e concorrenza con l’organizzazione di cui disponiamo. Ma davvero credete che non si possa sfondare nel mondo con un’impresa di dimensioni ridotte? Noi siamo convinti del contrario, così come siamo convinti che il nostro modello d’industrializzazione continui a essere competitivo, se solo lo vogliamo, perché è proprio dalla piccola e media realtà che nasce e fiorisce la sana imprenditoria.

Dovremmo forse preferire le grandi corporazioni e multinazionali, realtà più virtuali che reali, in cui il concetto stesso di lavoro viene distorto e il cui scopo, a volte, pare essere quello di acquistare aziende in crisi, spremerle, smembrarle e svenderle l’anno seguente, distruggendo in molti casi intere realtà industriali, decenni di esperienze e conoscenze, privando migliaia di impiegati di un posto di lavoro?

Anche in questo caso, il pensiero strategico è volto solo al presente, e mai al futuro. E, nel frattempo, i nostri imprenditori e dirigenti, invece di sforzarsi per produrre sul suolo nazionale, difendendo il loro e il nostro essere italiani, hanno preferito guadagni facili e immediati, trasferendo la produzione in Cina o in altri paesi in via di sviluppo. Ma è questa la soluzione? Certo, nel breve termine. Poi il boomerang che abbiamo lanciato tornerà indietro, noi ci ritroveremo più poveri e scoperti di prima e inizierà quindi il quotidiano lamento, attività in cui questa nazione pare essere molto esperta, nei confronti della sleale concorrenza cinese, che noi abbiamo voluto e cercato ben sapendo a cosa si andava incontro.

Ma la colpa dell’arretramento economico non è solo di imprenditori e dirigenti, perché sarebbe facile, come sempre, addossare i peccati a chi mette la propria faccia in prima linea: la colpa è di tutti i cittadini e di tutti i lavoratori, che non vogliono più svolgere alcun tipo di mestiere, se non il dirigente, il capo, il consulente, cercando in ogni caso di fare il meno possibile, in un’atmosfera di pressappochismo dilagante che lascia davvero sconcertati. Io sono giunto a credere che la disoccupazione potrebbe essere di gran lunga inferiore a ciò che ci viene raccontato. Perché? Perché le fabbriche, tutte le fabbriche, sono piene di lavoratori extracomunitari, in posizioni che potrebbero essere occupate da giovani italiani – che tra l’altro possiedono una cultura del fare sicuramente superiore –, se solo lo volessero. Purtroppo, non siamo nati tutti dirigenti e quei mestieri, oggi svolti soltanto da extracomunitari, dieci, quindici anni fa erano affidati ai nostri connazionali. Ma evidentemente si preferisce stare a casa a carico di qualcun altro, piuttosto che svolgere mansioni dove occorre sudare e faticare.

E qui entrano in gioco anche i sindacati, sempre fuori tempo e bravissimi a non capire quale sia il momento giusto per chiedere e rivendicare, incapaci di comprendere come la perdita di competitività delle aziende sia anche dovuta alla continua protezione del lassismo e del fare il meno possibile.

Ma ci sono solo gli imprenditori e i lavoratori all’origine della crisi che ci ha investito in tutta la sua drammaticità? Siamo infatti dinnanzi a un evento azzeratore capace di rimettere tutto in discussione, come una safety car che ricompatta le ambizioni di tutti i contendenti alla vittoria. Una volta erano le guerre a fungere da azzeratori: per fortuna in Occidente sono assenti da lungo tempo. I nuovi eventi azzeratori sono ora i crack industriali ed economici di ampia portata: la nostra società ha vissuto in questi decenni al di sopra delle proprie possibilità e, nella consapevolezza che l’apice del benessere fosse uno stato di diritto, hanno preso piede quegli elementi di disturbo che da sempre sono all’origine del tracollo di un’organizzazione sociale, elementi che portano il nome di degrado, svogliatezza, incapacità di combattere, corruzione. La nostra società è come l’impero romano che, dopo aver conquistato tutto il mondo conosciuto, si è abbandonato al degrado e al lassismo, addormentandosi sugli allori e di conseguenza cadendo.

Ma possibile che siamo stati così poco accorti? Certo, lo siamo stati, ma in fondo abbiamo continuato a lavorare cercando di mantenere il nostro livello di benessere. Evidentemente c’è un’altra entità che ci ha trascinato verso questo declino e che andrebbe additata come la corresponsabile di quanto sta avvenendo: il sistema bancario e finanziario.

Le banche, così come le multinazionali, sono divenute strutture ingessate, gestite in alcuni casi da manager che hanno pensato al loro tornaconto e in malafede hanno venduto i loro errori camuffati da albero della cuccagna ai piccoli risparmiatori, bruciando così il denaro accantonato dai comuni cittadini in tanti anni di lavoro e sacrifici. Alcuni di questi dirigenti sono i responsabili dell’impoverimento della società: hanno gestito fiumi di denaro altrui investendo in prodotti ad elevato rischio, senza ben evidenziare i pericoli a cui andava incontro l’incauto e sprovveduto pensionato e il lavoratore della classe media. Costoro sono stati bravi nel rendere nebulosi i concetti più semplici e nell’utilizzare una miriade di termini inglesi di alta finanza, parlando con poveri cristi che volevano soltanto mettere al sicuro il loro piccolo tesoro, al fine di creare un futuro ai propri figli. Ma molti cittadini hanno un pudore e un senso di dignità da rispettare, con la conseguenza che ben si guardano dal chiedere al funzionario o al promotore il significato di tanto ostrogote parole, per evitare di passare per ignoranti. E così sono stati venduti investimenti a lunga scadenza a pensionati ottantenni, che tornati nelle proprie abitazioni non hanno nemmeno saputo spiegare alle mogli quali prodotti avevano acquistato. Noi tutti siamo stati rassicurati del fatto che, testuali parole del grande dottore in finanza, “eravamo in una botte di ferro”, fiduciosi che il premio al nostro sudore e ai nostri sacrifici era stato posto in mani colte e sapienti.

Noi tutti sappiamo che, in qualsiasi mestiere, si può sbagliare. Sappiamo anche che, quando si sbaglia, si paga di tasca propria. Chiunque di noi, se non realizza bene il proprio prodotto, non verrà pagato. Evidentemente tale regola ovvia non vale per questi manager, funzionari e direttori di banca, che con i loro consigli e la loro mala gestione della ricchezza altrui hanno contribuito all’impoverimento di molti cittadini. Non si riesce a comprendere perché queste persone che hanno così clamorosamente fallito non paghino per i loro errori. Così come non riusciamo a comprendere la gente comune: pare che ci sia uno strano tabù che impedisce a chi ha subito tali fregature di parlare del proprio denaro e del fatto che a volte sia stato volutamente abbindolato. Perché i milioni di risparmiatori che hanno visto svanire i propri soldi nel nulla non hanno manifestato alcuna reazione ma anzi, quasi vergognandosene, hanno subito passivamente l’ingiustizia? Siamo stati vittime di un vero e proprio imbroglio: una volta scoperchiata la pentola con il caso Parmalat, abbiamo scoperto che all’interno c’era parecchio marcio, che si potevano e si possono falsificare bilanci e situazioni patrimoniali di grandi imprese a danno dell’investitore. Ma perché le realtà quotate in borsa vengono così poco controllate da un punto di vista finanziario? Perché a pagare è soltanto il piccolo risparmiatore? Così facendo, si è innescata una spirale di sfiducia che ha allontanato sempre di più il comune cittadino da ogni genere di investimenti: per cui non meravigliamoci se oggi c’è chi preferisce nascondere i soldi sotto il materasso piuttosto che acquistare azioni e obbligazioni. Il piccolo e medio risparmiatore non vuole più saperne di un mondo industriale e finanziario così poco trasparente: ci vorranno anni per riacquistare la fiducia dei cittadini, e saranno anni irti di ostacoli.

Come potremmo quindi uscire da questo clima di sfiducia, dalla crisi abissale in cui è caduta la società consumistica occidentale? Innanzitutto occorre chiedersi se esistano gli strumenti per uscirne: noi crediamo di sì, anche se le conseguenze implicate saranno di portata elevata, perché comunque nulla sarà come prima e le ripercussioni di quanto è avvenuto si faranno sentire per almeno tre anni. Dovremo quindi rivedere il nostro modo di vivere, di lavorare, di consumare, dovremo affrontare enormi sacrifici a tutti i livelli e accettare di rinunciare a tanti diritti acquisiti: se non ne saremo capaci, subiremo un forte arretramento del nostro livello di benessere. Il cittadino dovrà ritornare a una gestione reale e concreta dell’economia del nucleo familiare, evitando gli indebitamenti per beni futili e superflui, spendendo più denaro di quanto ne abbia guadagnato: questo tipo di consumismo sfrenato prima o poi doveva crollare, e gli eventi di questi giorni lo hanno dimostrato.

Dall’altro lato della barricata, servirà una finanza completamente trasformata, seria, leale, efficiente, capace di gestire il risparmio con l’oculatezza di un buon padre di famiglia. Dovrà essere una finanza in grado di tutelare la ricchezza del piccolo risparmiatore, ma anche capace di aiutare a crescere le imprese che detengono progetti e prodotti validi, seri, innovativi. Capacità questa che, malgrado gli accattivanti discorsi da convegno, è al giorno d’oggi spesso assente nel nostro sistema bancario, che ben si guarda dal creare stimoli per lo sviluppo dell’imprenditoria. In questo nuovo assetto, i manager che hanno contribuito a creare questa situazione dovranno essere allontanati e sostituiti da figure scelte in merito alla loro capacità e levatura morale. Le imprese, d’altro canto, dovranno essere guidate finalmente non da banchieri o finanzieri, ma da imprenditori responsabili, in grado di portare al successo strutture moderne, snelle, con idee nuove, capaci di riaffermare il made in Italy, orientate ai prodotti e non solo ai servizi, caratterizzate da trasparenza e lealtà, al fine di poter attrarre potenziali investitori. Ma ci saranno ancora imprenditori veri che avranno voglia di provarci? Avranno le idee e i progetti per trasformare le imprese in aziende di alta tecnologia che possano trovarsi al riparo dalla concorrenza delle produzioni dei paesi emergenti? E il sistema bancario sarà capace di finanziare questi imprenditori, di concedere loro crediti e fidi, di assumere la propria dose di rischio per uscire dallo stallo?

Crediamo che il modello della piccola e media impresa non abbia ancora terminato il suo ciclo, crediamo anzi che sarà in grado di darci in futuro grandi soddisfazioni anche in un’economia di tipo globalizzato: questo modello dovrà essere adeguatamente supportato, evitando che venga surclassato dall’avidità di grandi multinazionali che hanno già dimostrato in più occasioni la loro vera natura, contraria al reale sviluppo e alla sana imprenditoria.

I lavoratori, dal canto loro, dovranno prendere coscienza che la nostra società si trova alle prese con un passaggio delicato e cruciale, oseremmo dire epocale: in questo anche le organizzazioni sindacali dovranno fare la loro parte, attraverso un processo di rinnovamento che le faccia realmente divenire una forza al passo con i tempi e uno strumento di aiuto e protezione reale dei lavoratori. Per fare ciò, ma soprattutto per divenire più credibili nei confronti della forza lavoro, dovranno sapersi sganciare dalla politica e dal partito.

La parola d’ordine sarà “fare sistema”: sistema tra finanza, impresa e lavoratori, per crescere uniti con serietà al fine di costruire una nuova economia del benessere in grado di superare questo stallo. Se saremo capaci di fare questo, potremo ridare nuovo slancio all’Italia e a tutto l’Occidente: ben venga quindi quanto è accaduto, se servirà a creare un modello di società più sostenibile.