La Città del Secondo Rinascimento

Numero 23 - L'era del brainworking

Franco Moscetti
amministratore delegato Amplifon Corporate (Milano)

VENDIAMO EMOZIONI, NON PRODOTTI

intervista di Pasquale Petrocelli

Ritiene possibile una distinzione tra marketing e marketing sociale, ossia senza fini commerciali? Nel caso di Amplifon, tale distinzione appare superflua, in quanto la missione della produzione consiste nel miglioramento della qualità della vita di persone con un problema di ipoacusia.

Non credo sia possibile una distinzione tra marketing e marketing sociale, dal momento che tutte le aziende dovrebbero farsi carico delle problematiche della comunità in cui sono inserite, quella che in gergo si chiama social corporate responsibility, ossia la responsabilità sociale dell’azienda. Il profitto deve risultare come conseguenza logica dell’operato e dell’approccio sociale e non deve essere il solo parametro di riferimento. Il Gruppo Amplifon potrebbe essere un esempio. Pensando a una persona che aveva problemi di udito e che oggi si trova nella condizione di poter ascoltare di nuovo, ci si rende conto che le conseguenze di questo cambiamento sono anche un recupero sul piano sociale, perché la persona in questione lavora meglio, vive meglio, ha migliori relazioni sociali. A partire da ciò, Amplifon ha la possibilità di sviluppare in maniera più valida e interessante il proprio business, senza tenere il profitto come unico parametro di riferimento, ma immaginando che si possa guadagnare in maniera direttamente proporzionale al valore sociale che l’azienda crea nel contesto nel quale è inserita.

All’interno della nostra Fondazione – Charles Holland – in cui investiamo una parte dei profitti di Amplifon, esistono due anime: una di queste è il Centro Ricerca e Sviluppo, orientato alla formazione e all’aggiornamento continuo dei medici come gli otorinolaringoiatri, nostri prescrittori di riferimento, e degli audioprotesisti, che sono le nostre figure professionali chiave. L’audioprotesista ha il compito d’identificare i bisogni specifici e individuali dei pazienti e di personalizzare, di conseguenza, il prodotto a loro destinato. Un’altra parte dei profitti Amplifon è investita nella Fondazione Charles Holland in attività di valenza esclusivamente sociale. Aiutare le persone meno fortunate è un’azione etica prima che strategica. Non credo che al giorno d’oggi esistano aziende che possano sfuggire a questa logica in quanto l’opinione pubblica, gli investitori, così come i fornitori e i clienti, accettano sempre meno volentieri d’investire in un’azienda che non abbia un approccio sociale importante e valido.

Può darci una breve testimonianza della sua esperienza professionale?

Io sono etrusco, nel senso che sono nato a Tarquinia, antica capitale etrusca. Nella mia vita professionale ho realizzato non un sogno, ma un miracolo. Nel 1973 fui assunto come venditore dall’Air Liquide, una compagnia francese. Ho lavorato per tre anni e mezzo a Parigi come direttore dell’attività medica a livello internazionale. Questo mi ha dato la possibilità di fare esperienze in nord America, sud America, Cina, Taiwan, Giappone ed Europa. Successivamente, divenni amministratore delegato in Italia. Quando lasciai l’Air Liquide, la compagnia fatturava oltre dieci miliardi di euro in sessantasette paesi, con circa quarantamila dipendenti. La scelta di lasciare un gruppo così consolidato e produttivo arrivò per puro caso. Un cacciatore di teste mi disse che un gruppo italiano stava cercando un manager che avesse esperienze internazionali, il cui profilo sembrava essere, a suo avviso, la mia fotografia. Prima con curiosità, poi con interesse, approfondii questo argomento. Non avevo intenzione di cambiare perché avevo già realizzato un miracolo: ero a Parigi, vivevo in un bellissimo appartamento, ero considerato benissimo dalle persone con cui lavoravo. Ero il non-francese del Gruppo, con ancora tantissimo potenziale. Ma, una volta venuto a conoscenza del progetto Amplifon, me ne innamorai e decisi d’iniziare a far parte del Gruppo. Nel dicembre 2004, mi trasferii da Parigi a Milano ed assunsi la responsabilità del Gruppo Amplifon.

Come definirebbe questo Gruppo?

L’attività di Amplifon consiste nel vendere un’emozione, inoltre, c’è da dire che gli effetti del recupero dell’udito non sono solo personali ma anche sociali. Mi piace pensare che nel nostro Gruppo ci siano venditori di emozioni, non di prodotti.

Lei ha seguito una formazione particolare? Ha avuto maestri?

Ho frequentato anche la Insead School e la Stanford University, a Palo Alto, ma credo che non sarebbero servite a molto da sole. Per riuscire è necessario avere l’umiltà di mettersi in discussione e di ascoltare gli altri. Solo l’ascolto rende possibile l’interpretazione dei bisogni della collettività e oggi vince chi interpreta il futuro prima degli altri. Un futuro che cambia molto rapidamente e che, se manca la disponibilità all’ascolto, risulta difficile seguire. Si rischia di estraniarsi dalla realtà in continua evoluzione, di non riuscire ad apportare le modifiche necessarie all’azienda per continuare a vincere e, infine, di ritrovarsi fuori dal mercato. Posso dire di avere avuto maggiori esempi di saggezza da parte del mio vecchio autista che dalla Insead, anche se i miei più grandi maestri sono stati i miei genitori. A Tarquinia, che è un piccolo paese, mio padre faceva grandi passeggiate sul corso principale della città. Era un uomo molto forte ma con me non è stato mai oppressivo. Ricordo che una volta mi disse: “Mio caro figlio, sappi che nella tua vita potrai fare tutto quello che vorrai, a patto che potrò continuare a passeggiare per il corso a testa alta”. Voleva dire che credeva in me e si aspettava che nella mia vita facessi un lavoro onesto, trasparente, etico. Nel 1999 mio padre morì e fino all’età di settant’anni aveva aiutato le persone più anziane di lui ad attraversare la strada. Ogni volta che gli mostravo un mio successo, anziché congratularsi e elogiarmi, mi ricordava quanto ancora si poteva fare per gli altri. Da lui ho ereditato questa sorta di bisogno di continuo miglioramento. Sono felice quando anche gli altri sono felici e lo sono ancora di più quando posso fare qualcosa per far sì che anche gli altri lo siano. Nella gestione dell’azienda mi comporto come se facessi politica, sapendo di giocare un ruolo socialmente fondamentale: voglio riuscire a essere chiaro, trasparente, etico, al fine di diventare un modello per gli altri. Se riuscirò a produrre valore e opportunità, lo farò non soltanto per le persone che collaborano già con Amplifon, ma anche per i nostri figli, per i figli dei nostri figli, per la collettività.

Come si combina in Amplifon il binomio impresa/salute?

I nostri dispositivi medici, le nostre protesi, prodotti non invasivi e applicabili senza alcun intervento chirurgico, sono appositamente studiati per migliorare la qualità della vita dei nostri clienti.

Le attività sanitarie hanno una caratteristica fondamentale: sono le più internazionali e le più locali allo stesso tempo. Sembra una contraddizione ma se un cittadino ha l’influenza, il raffreddore, un problema di udito, il cancro o una qualunque altra patologia, il particolare che la persona in questione sia italiana, francese, africana o asiatica non fa alcuna differenza. Tutti hanno la stessa patologia. Le differenze sorgono nelle particolari organizzazioni statali e locali, che possono essere pubbliche o private. Lavorando in un’attività sanitaria, è necessario tenere presente questa matrice internazionale. L’Amplifon vende le stesse protesi in Italia, negli USA, in Francia e in tutti i tredici paesi in cui attualmente opera, anche se il metodo con cui questo avviene varia da paese a paese. Per fare qualche esempio, negli Stati Uniti i nostri clienti comprano a proprie spese le protesi, in Italia, così come in Francia, esistono una serie di rimborsi ottenibili dal Servizio Sanitario Nazionale, in Svizzera invece sono previsti rimborsi da parte della propria assicurazione personale. La nostra attività affronta un mix di problematiche internazionali e locali. Nessuno intende decidere da Milano come curare un paziente a Minneapolis, a San Francisco o a Toronto, perché i colleghi che lavorano sul posto sanno decidere molto meglio di noi che strada seguire in base alle varie organizzazioni del servizio sanitario locale, in base alle abitudini o altro. È essenziale invece costituire un modello etico di riferimento, una guida che indichi la strada che ciascun processo deve seguire, fondata sulla trasparenza, sull’onestà e la giustizia. Questa caratteristica non può non essere internazionale.